Nella scorsa puntata ho riassunto il mio 2022 di letture in numeri. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Annoto qui qualche libro, tra quelli che ho concluso lo scorso anno, con il criterio di quanto abbiano stimolato la mia curiosità o siano stati una scoperta piacevole. Il meglio dell’anno, in altre parole, anche se per motivi molto differenti da un titolo all’altro. Questa è la lista dello scorso anno.
W. G. Sebald, Gli anelli di Saturno (Adelphi, ed. or. 1995). Il libro di narrativa più bello del 2022 arrivò già a gennaio: l’ho letto in una settimana nei primi giorni dell’anno. Il mistero di Sebald, segno di vera grandezza, è che non è facile mettere a fuoco il motivo per cui Gli anelli di Saturno sia un capolavoro (e superiore ad Austerlitz, a mio modesto avviso). La trama è esilissima e ad alto rischio di noiosità autoreferenziale – un viaggio a piedi, anzi un “pellegrinaggio”, come dice il sottotitolo, per i paesini dell’Inghilterra orientale – ma si rivela invece una successione di piccole e grandi vicende piene di fascino, con una loro misteriosa coerenza, che finisce per formare uno studio sulla vita e sull’uomo. Ne avevo già scritto in questa uscita.
Filippo Facci, La guerra dei trent’anni (Marsilio, 2022). Qui invece la trama c’è eccome: la cronaca quasi quotidiana degli anni di Mani Pulite, scritta da un cronista che la visse in prima persona “dalla parte sbagliata”: cioè lavorando per l’Avanti!, il quotidiano dei socialisti. Facci ha le idee molto chiare quanto è successo: Mani Pulite ha travolto con metodi terribili e con la complicità del sistema mediatico un mondo con i suoi difetti, sì, ma comunque migliore di quello che è arrivato dopo. Il caro amico Giovanni mi ha regalato poco tempo fa il libro di uno dei giornalisti più importanti del fronte “colpevolista”, Goffredo Buccini. Sarà interessante fare il confronto. Ho già scritto del libro di Facci in questa puntata.
Gianfranco Calligarich, L’ultima estate in città (Bompiani, ed. or. 1973). Uno dei casi editoriali degli ultimi tempi è un romanzo pubblicato cinquant’anni fa con prestigiosi apprezzamenti, poi dimenticato per essere riscoperto soltanto di recente, in particolare con una riedizione Bompiani del 2016. Lo lessi già qualche tempo fa, l’ho riletto lo scorso anno. Lo sguardo sul mondo e l’atmosfera mi hanno ricordato Bianciardi, con qualcosa di Salinger e dello spirito beat. Malinconico e pieno di vita, disordinato e con qualche difetto, un bel romanzo di formazione.
James Suzman, Lavoro (Il Saggiatore, ed. or. 2020). Un altro lavoro è possibile, dice l’antropologo Suzman. In alcune culture di cacciatori-raccoglitori, l’attività lavorativa è confinata a poche ore la settimana, senza che il benessere o l’aspettativa di vita ne risentano particolarmente, anzi. È stata la rivoluzione agricola a portare con sé l’idea di accumulo, di possesso personale, di programmazione per il futuro – in definitiva l’ossessione per il lavoro. Il libro si allarga poi a una storia universale del lavoro con alcune parti piuttosto deboli o non troppo innovative, specie nella seconda metà, ma è una bella lettura lo stesso, per come fa riflettere sul ruolo che il lavoro ha oggi nelle nostre vite. Ne parlo più estesamente in questa uscita.
Gordon Campbell, Norse America (Oxford, 2021). Che cosa c’è di vero nella storia che furono i Vichinghi, e non Cristoforo Colombo, a scoprire l’America? Quello di Campbell è un libro affascinante perché dà la risposta nel dettaglio, ma anche perché mostra con grande intelligenza quanto profondamente la Storia sia il prodotto delle narrazioni culturali e sociali dell’epoca in cui viene fatta. Tra Otto e Novecento, per esempio, il mito della scoperta vichinga servì a far sentire più americani i coloni di recente immigrazione dal Nord Europa, con ampia produzione di manufatti falsi a sostegno e spesso a scapito dei nativi. Che io sappia il libro non è stato tradotto in italiano. Ne parlai già qui.
John D’Agata, Jim Fingal, The Lifespan of a Fact (W.W. Norton, 2012). Libro unico e curiosissimo: consiste nel testo di un articolo sottoposto alla redazione di un periodico e, tutto intorno a mo’ di glossa in un manoscritto medievale, il dialogo tra l’autore del pezzo e il fact-checker incaricato dalla redazione di verificare nel dettaglio tutti i dati e i fatti contenuti nell’articolo. L’autore difende la sua libertà di prendersi qualche licenza, il verificatore tiene il punto, il dialogo si allarga fino a considerazioni su che cosa sia la verità, quale sia il fine dell’arte e del giornalismo, se sia possibile un’oggettività. Non mi pare che sia tradotto in italiano, purtroppo.
Peter Mair, Governare il vuoto (Rubbettino, ed. or. 2013). Se ci fosse un solo libro che dovessi consigliare per capire che cosa sta succedendo nella politica del nostro tempo, sarebbe questo. Mair analizza alla perfezione perché la società di oggi sia disamorata verso la politica dei partiti e diserti le urne, e perché i partiti siano sempre più in crisi nella loro capacità di rappresentare e governare la società. Contiene anche una critica ragionata del progetto dell’Unione europea così come è stato pensato e si sta realizzando. Lettura a tratti tecnica, ne ho scritto qualcosa di più in questa uscita.
Raffaele La Capria, Ferito a morte (Mondadori, ed. or. 1961). La morte di La Capria, a giugno scorso, mi ha portato a leggere il romanzo considerato il suo capolavoro. Con stile ellittico e a tratti aspro, il libro racconta le storie di alcuni ragazzi delle classi agiate napoletane a partire dall’estate del 1943. Un romanzo che è invecchiato molto bene: la fotografia della società partenopea di sessant’anni fa, con i suoi tipi umani, le sue piccole tragedie, le sue inevitabili miserie, parla ancora oggi, e alcune pagine sulla nostalgia e lo scorrere del tempo sono davvero benedette. Qualcosa di Arbasino e qualcosa del Deserto dei tartari. Mi prometto di rileggerlo, la sua fama è meritata.
Jonathan Franzen, Crossroads (Einaudi, 2021). Franzen è uno dei tre o quattro autori americani più importanti e con Crossroads è tornato dopo diversi anni di assenza. Dopo il non memorabile Purity, qui torna a fare sul serio. Lo si legge ammirati per la capacità di costruire trame complesse e popolate da tanti personaggi, per l’abilità nello scavo psicologico, in una parola per la sua bravura. Si vede che con ogni opera Franzen punta a scrivere (o riscrivere) il mitologico “grande romanzo americano”, il libro che riassume un’epoca. Rimane però sullo sfondo l’impressione che Franzen scriva con immenso sforzo quello che a Philip Roth riusciva con naturalezza. Di Crossroads ho scritto già qui.
Guido Morselli, Dissipatio H.G. (Adephi, ed. or. 1977). Il libro di Morselli ha molti estimatori e quest’anno mi sono deciso finalmente a leggerlo. Una sorta di lungo monologo descrive una vicenda apocalittica dal punto di vista di un misantropo disperato: vicenda che si fatica a non accostare alla biografia dell’autore, che si tolse la vita pochi mesi dopo aver terminato questo libro nel 1973. Durante la lettura, per lunghi tratti, si ha l’impressione che la scrittura giri a vuoto: il forte spunto iniziale fatica a trovare uno sbocco, un’evoluzione, e si resta con l’idea che un racconto sarebbe stato più che sufficiente. Il confronto con il Thomas Bernhard di Perturbamento, che per certi versi fa qualcosa di simile, non è a favore di questo libro.
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Anch'io non comprendo bene da dove origini il fascino di Sebald, che è fortissimo. Forse fa parte di quella categoria di "scrittori/affabulatori", il genere di persona che riesce misteriosamente a destare interesse su qualsiasi argomento. Quelli insomma con cui ci piacerebbe fare un viaggio, o visitare una città... chissà.
Sullo sforzo di Franzen ci ho pensato anche io, Roth al momento un paio di gradini lassù