Nella scorsa puntata ho parlato di un libro sulle scoperte dell’America. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Tra i poteri più misteriosi ed efficaci dei libri c’è quello di dare espressione a pensieri confusi, intuiti più che conosciuti, in qualche modo presenti nella testa del lettore, ma in forma indistinta e quasi inaccessibile. Càpita allora che la parola scritta dia forma a quanto il lettore già sapeva, senza sapere di saperlo. Prendiamo per esempio un passaggio famoso del Grande Gatsby:
They were careless people, Tom and Daisy – they smashed up things and creatures and then retreated back into their money or their vast carelessness or whatever it was that kept them together, and let other people clean up the mess they had made.
E cioè:
Erano persone noncuranti, Tom e Daisy – sfasciavano cose e persone e poi si ritraevano di nuovo nei loro soldi o nella loro vasta noncuranza o in qualsiasi cosa fosse che li teneva insieme, e lasciavano che altra gente ripulisse il casino che avevano fatto.
Tutti abbiamo conosciuto careless people, un preciso tipo umano e sociale. Ma è possibile che – come è accaduto a me – non avessimo l’espressione per definirle fino a quando non ci siamo imbattuti in queste tre righe perfette di Fitzgerald.
È convinzione diffusa che l’espressione artistica non sia in grado solo di far riconoscere, ma anche di creare: che cioè alcuni modi di vedere e descrivere il mondo siano entrati nel nostro lessico, tra i nostri strumenti per leggere la realtà, soltanto dopo che un autore ne ha data espressione scritta. Questione interessante, su cui ho un’opinione incerta. Di sicuro la nostra lingua registra traccia di questi riconoscimenti o creazioni: kafkiano, bovarismo, borgesiano; tutte parole che rimandano subito a un’idea la cui esistenza – o chiara formulazione – si deve a un libro.
Come la scrittura artistica anche i saggi hanno lo stesso potere. Alcuni di loro, e non di rado i migliori, hanno il merito principale di sostanziare con dati, studi e analisi alcune cose che sono per lo più sotto gli occhi di tutti, a saperle e poterle vedere. Me ne sono reso conto in questi giorni leggendo Ruling the Void: The Hollowing of Western Democracy di Peter Mair, libro postumo del politologo irlandese Peter Mair, prematuramente scomparso nel 2011 e da ultimo professore dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze (il libro è stato pubblicato in italiano da Rubbettino nel 2016).
Il nocciolo del libro di Mair è già nelle prime righe dell’Introduzione:
L’età della democrazia partitica è finita. Anche se i partiti, di per sé, rimangono, sono diventati così scollegati dalla società intorno a loro, e sono impegnati in una competizione così priva di senso, da non sembrare più in grado di sostenere la democrazia nella sua forma attuale.
L’affermazione, una volta letta, suona ovvia. E Mair la giustifica e la espande nei capitoli successivi, in cui elenca implacabile una serie di dati di fatto: il calo costante dell’affluenza dagli anni Novanta in poi, in tutti i Paesi dell’Europa occidentale; il vero e proprio crollo della partecipazione politica, come risulta ad esempio dai numeri degli iscritti ai partiti; l’imprevedibilità e l’incostanza delle fedeltà degli elettori.
Allo stesso tempo, scrive Mair, sta cambiando la dinamica tra governo e partiti. Le politiche non sono più elaborate all’interno dei partiti stessi, ma provengono sempre più dall’esterno (sia esso gruppi di esperti o istituzioni internazionali). I partiti vanno via via perdendo il loro ruolo di cinghia di trasmissione tra la volontà degli elettori – peraltro sempre più incerta e confusa – e il decisore politico. Un problema molto grande, perché quel ruolo per decenni è stato loro garantito dai nostri ordinamenti costituzionali, e alternative ancora non si vedono.
C’è molto altro nel libro di Mair, ma sarà già apparso chiaro il collegamento con quanto abbiamo visto in questi giorni: sedici milioni di elettori, più di uno su tre degli aventi diritto, non si sono presentati alle urne alle ultime politiche. Chi lo ha fatto ha votato in massa – 7,3 milioni di voti – il partito vincitore, che alle elezioni precedenti, quattro anni fa, non raggiungeva il milione e mezzo di preferenze. Il tutto avviene nello stesso elettorato che, stando ai sondaggi di opinione, dava larghissimi indici di gradimento, sopra il 60 per cento, allo stesso tempo a Mario Draghi e a Giuseppe Conte.
Molti commenti di questi giorni esprimono sgomento o indignazione per questi risultati. Un libro di qualche anno fa aveva già individuato, analizzato, espresso quello che sta succedendo in Italia e altrove. Il lettore curioso si imbatte di quando in quando in pagine che dipingono il presente con un potere quasi magico.
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