Nella scorsa puntata ho parlato di un libro sul lavoro che fa riflettere. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Il lettore curioso ha spesso domande che gli ronzano nella testa per molto tempo, la cui risposta, ad istinto, appare complessa: non uno di quei dubbi insomma che si possano risolvere con soddisfazione in una breve ricerca su Wikipedia. Qualche settimana fa, mentre mi trovavo in viaggio negli Stati Uniti e girovagavo per una libreria, mi sono imbattuto in un libro che prometteva proprio di affrontare una di quelle questioni sospese. Si chiama Norse America. The story of a founding myth, l’autore è l’accademico inglese Gordon Campbell ed è stato pubblicato nel 2021 dalla casa editrice dell’Università di Oxford.
La domanda a cui fornisce una risposta chiara e articolata è se l’America sia stata scoperta davvero dai Vichinghi. Meglio sarebbe dire Norreni (Norse), ho peraltro scoperto dal libro, perché vikingr indica in senso più stretto i gruppi di pirati, razziatori e forse persino mercanti che facevano parte degli antichi popoli scandinavi, i quali, per la maggior parte, erano formati da cacciatori e agricoltori (c’è poi il fatto che vikingr si riferisce solo ai maschi).
Andando dritti al punto: ci sono tre ordini di prove che vale la pena considerare. Il primo sono le testimonianze delle saghe nordiche e di alcune opere storiche, che fanno riferimento ad alcune terre a ovest della Groenlandia – Helluland, Markland e Vinland, la più meridionale – visitate da capi vichinghi durante le loro avventure in racconti che risalgono al X-XI secolo. Senza scendere troppo nel dettaglio, ciò che riportano le saghe lascia quasi più dubbi aperti di quanti non ne risolva, perché nessuno di quei territori può essere identificato con certezza ed è impossibile separare gli elementi mitici e di fantasia dai fatti storici a cui le epopee potrebbero essersi ispirate. Trarre conclusioni certe dalle saghe sarebbe un po’ come provare a ricostruire storia e geografia del Mediterraneo basandosi soltanto sull’Odissea.
La seconda categoria di prove sono le testimonianze archeologiche, che danno un responso piuttosto sorprendente al lettore curioso. Immaginavo infatti che i resti vichinghi in America settentrionale fossero numerosi e dipingessero un quadro ricco e complesso. In realtà, esiste un solo sito archeologico in tutto il continente americano in cui ci siano prove certe di una presenza vichinga: è sull’estremità settentrionale dell’enorme isola del Newfoundland e si chiama L’Anse aux Meadows.
Il sito è noto da qualche decennio ed è stato scavato a partire dagli anni Sessanta. Quello che è stato trovato finora sono i resti di un punto di sosta per equipaggi, forse stagionale e adatto al massimo per qualche decina di persone, utilizzato per pochi anni intorno al Mille. E questo è tutto. Nulla sulla massa continentale che corrisponde a gran parte del Canada e degli Stati Uniti, nulla più a sud dell’assai settentrionale mare del Labrador.
Tralasciamo per ora il fatto che, dal punto di vista geografico, la Groenlandia fa parte del Nord America: per cui, a dirla tutta, i Norreni hanno in senso stretto abitato in America per secoli (le colonie norrene in Groenlandia vennero abbandonate, per motivi non ancora del tutto chiari, all’inizio del XV secolo dopo circa 450 anni dai primi insediamenti). Stando all’archeologia, i popoli scandinavi hanno in effetti raggiunto un territorio piuttosto vicino alle coste del continente nordamericano come lo intendiamo noi oggi: sembra però che non si siano mai fermati troppo a lungo – o almeno non abbiamo alcuna prova che lo abbiano fatto – e sicuramente non si trattava di una parte integrante delle loro terre, di un luogo con cui gli scambi fossero profondi, estesi e continui.
C’è poi il terzo ordine di prove, che è quello al tempo stesso meno utile e più affascinante. Si tratta delle prove di tipo immaginario, delle prove false. Nei secoli, e in particolare a partire dall’Ottocento, sono state “ritrovate” decine e decine di testimonianze della presunta presenza dei Norreni nel continente americano. Iscrizioni runiche, mappe, monumenti megalitici, sparsi su un territorio vastissimo, che hanno ispirato numerosi libri da parte di storici dilettanti e autodichiarati “esperti” – tuttora numerosi – tesi a dimostrare che, lungi dall’essere un affare dei Padri Pellegrini e men che meno di Cristoforo Colombo, gli antichi Vichinghi si erano fatti vivi ben addentro il continente americano già da parecchie centinaia di anni.
Alcune comunità locali hanno preso queste ricostruzioni molto sul serio. Ad Alexandria, in Minnesota, c’è una grande statua di un guerriero vichingo che porta sullo scudo la scritta “Alexandria, luogo di nascita dell’America” – a due passi da un museo il cui pezzo forte è una serie di scritte runiche, certamente un falso moderno, che proverebbero una spedizione in loco del 1362.
L’autore di Norse America spiega molto bene che i ritrovamenti moderni, tra loro così lontani e così diversi, sono frutto però ciascuno di tensioni culturali o disegni politici più o meno consapevoli. Per esempio in Minnesota, un’area abitata da molti discendenti di immigrati dalla Scandinavia, a cavallo tra Otto e Novecento le comunità di fresca immigrazione avevano bisogno di creare per sé stessi un mito da contrapporre a quello, allora dominante, dell’origine britannica della colonizzazione americana. Altrove invece presunti monumenti vichinghi sono serviti per negare la precedenza storica delle popolazioni native americane e per giustificare, a livello culturale se non puntuale, discriminazioni ed espropri.
D’altra parte, mostra Campbell, anche la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo – il momento della scoperta su tutti i libri di storia italiani – ha avuto alterne fortune nella concezione della storia statunitense. Il dato di fatto è che Colombo non ha mai visitato gli odierni Stati Uniti – lo fecero ai primi del Cinquecento alcune spedizioni spagnole successive – ma non è stato tanto questo a governarne la diffusione: ben maggiore importanza è che l’esploratore fosse un cattolico di origini genovesi, non certo anglosassone né protestante, e dunque a tratti troppo “forestiero” per una parte rilevante della popolazione e soprattutto delle élite culturali statunitensi. Le quali, per molto tempo, preferivano porre la “scoperta” in concomitanza dell’arrivo dei Padri Pellegrini inglesi, ai primi del Seicento.
Mentre le comunità italoamericane mantengono ancora oggi la loro festa principale proprio nel Columbus Day, celebrando quell’arrivo come il punto di inizio nella storia delle relazioni tra Vecchio e Nuovo continente. E non mi addentro neppure nella plurisecolare vicenda, certo affascinante e complessa, dei nativi americani, discendenti dei primi popoli che arrivarono nel continente dall’estremo nord-ovest dello Stretto di Bering. Insomma, la scoperta dell’America è in realtà un evento plurale. Un paio di settimane fa, per coincidenza, è uscito un articolo riassuntivo su The Conversation che parla delle “sette volte” in cui diversi popoli hanno scoperto l’America.
Nel frattempo, il sito dell’Anse aux Meadows è lì a fornire le (poche) risposte certe e basate sulla ricerca che si può dare alla questione della scoperta vichinga del continente. Al di là della risoluzione del dubbio sul primato esploratorio – che forse suonava interessante soltanto a me – la storia dei Norreni in America insegna che la ricostruzione del nostro passato è sempre la diretta conseguenza delle domande che scegliamo di farci e, soprattutto, delle cose che scegliamo di vedere.
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Che poi se lo vai a chiedere agli ispanici, Colombo era spagnolo, mica italiano: un certo Cristóbal Colón! Mah...
Che poi se lo vai a chiedere agli ispanici, Colombo era spagnolo, mica italiano: ovvero Cristóbal Colón.