La scorsa settimana ho parlato di Thomas Bernhard. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Filippo Facci, giornalista di Libero, ha scritto una voluminosa storia di Mani Pulite intitolata La guerra dei trent’anni e pubblicata poche settimane fa da Marsilio. Per gli interessati ai temi della giustizia, della politica e della storia italiana recente, si tratta senza dubbio di un libro molto importante. In quasi settecento pagine, Facci ripercorre giorno per giorno (letteralmente: il libro è strutturato come una sorta di agenda o diario) le vicende più note degli anni tra il 1992 e il 1994 – dalle stragi di mafia alla crisi economica e alla fine di Craxi – ma anche altre ormai dimenticate e più di una, ad essere onesti, quasi sconosciuta.
Non si tratta del lavoro di uno storico spassionato o di un’inchiesta all’anglosassone, che fa sparire l’autore dietro una narrazione che vorrebbe essere il più obbiettiva possibile dei fatti nudi e crudi. L’autore non avrebbe potuto scriverla, d’altra parte. Quando cominciò Mani Pulite, Facci era un giovane giornalista della redazione milanese dell’Avanti!, la testata dei socialisti. E dunque ha vissuto i primi tempi scrivendo – lo dice lui – per «il giornale dei ladri» e sempre, potremmo dire, andando controcorrente.
Fin dall’inizio, ad esempio, Facci non ha fatto parte del coro di cronisti che, lavorando spesso in modo coordinato, glorificavano il lavoro del pool e in larga parte anzi ne facevano da megafono, riflesso di un consenso larghissimo in tutto il Paese per l’operato dei giudici. La commistione tra media e procure, tra l’altro, è uno dei grandi temi del libro che, oltre a essere una descrizione documentatissima di quanto successe allora, ha un punto di vista dichiarato, annunciato ed evidente.
E il punto di vista è questo: certo Mani Pulite fu un’inchiesta che chiuse un’epoca e spazzò via una classe politica, con il sostegno quasi unanime del pubblico e dei media, mentre l’Italia e il mondo stavano cambiando molto rapidamente. Ma la magistratura operò al di fuori di parecchie regole, piegando le procedure e con una peculiare concezione del diritto, portata avanti da personaggi tutt’altro che specchiati (e qui bisogna rimandare all’altrettanto fondamentale biografia di Di Pietro che lo stesso Facci ha pubblicato nel 2009) e cedendo più di una volta alla tentazione di farsi attore in campo anche nella politica (si veda quanto accadde al decreto Conso). Le sofferenze inflitte anche a persone che non c’entravano nulla furono enormi e nessuno fu chiamato a risponderne. Quanto venne dopo, nella politica italiana, fu qualcosa di differente e, con ogni probabilità, un po’ peggiore. Questo è lo sguardo di Facci.
Che peraltro lo va ripetendo da anni in tanti suoi articoli e già l’anno scorso aveva pubblicato 30 aprile 1993, sul celebre giorno del lancio delle monetine a Craxi fuori dall’Hotel Rafael. Per chi segue da tempo il giornalista, l’approccio e diverse pagine suoneranno infatti già note – perché anticipate dal suo autore sulla sua pagina Facebook o già utilizzate nel libro precedente – e al lettore attento non sfuggirà qualche ripetizione qua e là. I critici non saranno d’accordo con un’esposizione così schiettamente e sinceramente garantista, che in effetti, qualche volta, fa l’effetto di lasciare in secondo piano i veri reati e i molti colpevoli che davvero ci furono, rispetto alla puntigliosa esposizione delle tante inchieste finite in nulla e dei tanti arrestati poi assolti «perché il fatto non sussiste».
Ma resta il fatto che siamo di fronte a un libro di riferimento e, con ogni probabilità, che arriva al momento giusto. Scossa dagli scandali Palamara e Csm, la fiducia degli italiani nella magistratura sta subendo duri colpi e oggi, a seconda dei sondaggi, viaggia tra il 30 e il 40 per cento. Si sta provando, con fatica, a riformare diversi aspetti del nostro ordinamento giudiziario. Di Pietro è uscito di scena dopo una carriera politica non esattamente sfolgorante e altri protagonisti come Piercamillo Davigo non se la passano troppo bene oppure, a distanza di anni e a mezza bocca, hanno ammesso qualche eccesso e qualche forzatura. Più in generale, per fisiologico effetto del passare del tempo, la ruota della nostalgia è avanzata fino agli anni Ottanta e Novanta, nascondendone sotto il tappeto alcuni dei difetti…
Oltre a dire molto dell’Italia di allora, La guerra dei trent’anni dice parecchio anche di quella di oggi. Una frase in particolare mi è rimasta impressa, verso la metà del libro. È riferita a Gian Carlo Caselli e alle indagini sulla mafia, ma trovo si applichi bene anche al resto: «l’ostinarsi a ricercare, con i presupposti del diritto, una netta demarcazione tra il bianco e il nero in un paese fatto di grigi» (pp. 294-295). Trovo che uno dei grandi meriti del libro di Facci sia questo: mostrare che tirare righe troppo nette tra colpevoli e innocenti, tra inquisitori ed inquisiti, tra corrotti e corruttori sia un esercizio destinato a fallire, a meno di non nascondersi dietro una maschera da moralizzatori che prima o poi è destinata a cadere.
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Esimio Zagni,
Ti ringrazio per l'interessante segnalazione. Da giovane procuratore legale (all'epoca gli avvocati freschi di abilitazione professionale si chiamava così) ricordo come il pool di Milano venisse considerato come protagonista di una vera e propria catarsi giudiziaria; annunciatrice di un nuovo ordine politico e morale, destinato a spazzare via i peggiori mali che possano affliggere lo stato democratico. Com'è andata a finire è noto a noi tutti. Nonostante tutto, a Voi preziosi depositari dell'attività di informazione, preservare e tutelare le giovani generazioni dai facili entusiasmi. A presto.
Rodolfo Ranzani