Nella scorsa puntata ho parlato di cura e maltrattamento dei libri. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
La letteratura è piena di ironia, ma raramente fa ridere (così come raramente fa piangere e, quando succede, di solito non è un buon segno). Il mio amico Emanuele, attento lettore di questa newsletter, mi suggerisce il tema dei libri ridicoli, e volentieri lo raccolgo, anche perché ridere accade di rado al lettore accanito: e il motivo vale la pena di un approfondimento.
Esiste tutto un filone di letteratura umoristica, un genere specifico in cui la scrittura è impiegata con l’obbiettivo, appunto, di far ridere. Non sono tra gli appassionati del genere, e dunque posso nominare soltanto, tra le mie letture nel settore, Bar Sport di Stefano Benni, oppure i libri di racconti di David Sedaris – ho letto Holidays on Ice e Squirrel Seeks Chipmunk – che sono davvero divertenti.
L’umorismo, però, non invecchia molto bene. Uno dei motivi penso sia legato alla natura stessa dell’umorismo, che peraltro è difficile da definire con precisione: ci sono molte teorie, spesso piuttosto complicate, su che cosa sia l’umorismo e che cosa faccia ridere. Ma si può dire senza eccessivo timore che uno dei meccanismi alla base dell’umorismo è il sovvertimento di situazioni e contesti conosciuti, lo sviluppo inatteso di elementi ordinari: e dunque, con il passare del tempo, diventa sempre più difficile che l’autore e il lettore condividano lo stesso universo di riferimento, e che quello che era ordinario e normale per il primo – il contesto necessario alla battuta – lo sia anche per il secondo.
Il risultato è che le battute si perdono irrimediabilmente, quanto faceva ridere ieri perché capovolgeva le consuetudini o le attese risulta incomprensibile oggi. Prova ne sia che, se molte storie tragiche sono in grado di parlare ancora a secoli di distanza, sono assai più rare – non voglio dire quasi sconosciute – le immortali storie comiche.
Leggere oggi gli epigrammi di Marziale ha certo diversi punti di interesse, ma non è particolarmente divertente. Ricordiamo le trame di numerose tragedie classiche, quasi nessuna delle commedie greche o latine (al di là del significato che il genere “commedia” avesse in senso stretto). In diversi casi capiamo che questa o quella linea di dialogo dovesse essere una battuta: perché dovesse far ridere, però, in larga parte ci sfugge. E le antologie scolastiche o le edizioni annotate moderne si guardano bene dal far notare il problema, dando la falsa impressione che non ci sia nulla da spiegare. Ci vorrebbe invece una nota a piè di pagina che ammettesse: qui c’era qualcosa da ridere, ma non abbiamo idea di cosa.
Non è però necessario risalire fino a Plauto o ad Aristofane per cogliere il problema. Già dopo qualche decennio il genere comico dimostra i segni del tempo. Da ragazzo lessi Tre uomini in una barca di Jerome K. Jerome, uno dei classici del genere, e ricordo che non risi quasi mai.
Se dunque il genere comico è particolarmente fragile, bisognerà ammettere che parecchi dei libri più famosi sono perfettamente seri. C’è poco da ridere in Thomas Mann o in Dostoevskij, in Stoner o in Franzen o in McCarthy, anche se, in base a quanto abbiamo detto sulla caducità del contesto necessario a cogliere l’ironia, bisognerà tenere in conto che qualche volta ci stiamo semplicemente perdendo qualcosa: si dice – fa fede il mio amico Dario – che Franz Kafka ridesse, leggendo i suoi scritti agli amici. Dettaglio sconcertante, perché pochi lettori oggi assocerebbero Kafka all’umorismo. Anche in questo caso, l’umorismo si rivela fragile, transitorio, facile da fraintendere o lasciarsi sfuggire.
Non sono molti i casi in cui il lettore ride di cuore e le eccezioni, anche nella carriera di un lettore accanito, si contano sulle dita di una mano. All’università mi capitò, mentre mi trovavo nell’austera biblioteca della Normale e mi dedicavo alla lettura di Tondelli, di essere colto da attacchi di riso irrefrenabili leggendo Pao pao. Con la dolorosa necessità, peraltro, di stroncare gli entusiasmi, vista la necessità del silenzio e della compostezza da tenere in quella biblioteca quasi ancor più che nelle altre.
Ma se penso ai migliori libri che ho letto, spesso non c’è proprio nulla da ridere; diversi capolavori sono del tutto privi di momenti leggeri. Si potrebbe forse pensare che sia la realtà, o l’essere umano, a non essere al fondo particolarmente esilarante: che cioè, nello sforzo per rappresentare le verità profonde, la risata spesso non sia lo strumento più adatto.
Se però la letteratura non è ricca di umorismo, nel senso di opere scritte con il fine principale di far ridere il lettore, questo non vuol dire che tutti i libri migliori siano irrimediabilmente seriosi. Anzi, una delle caratteristiche più piacevoli della prosa migliore è l’ironia, di solito un’ironia diffusa, tra le righe, figlia dell’osservazione distaccata della materia di cui parla da parte dell’autore. La letteratura si può dividere tra chi fa restare seri e chi fa sorridere.
Diversi dei migliori scrittori italiani hanno quell’ironia. Appena dopo un paio di pagine del primo capitolo dei Promessi sposi, ad esempio, si trova questo passo:
…il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia.
Lo stile di Manzoni è pieno di questa ironia – motivo per cui la sua lettura è sempre straordinariamente divertente. Così come è divertente Gadda, o Arbasino, e molti altri grandi autori nostrani che usano in abbondanza l’ironia.
Avvicinandoci all’oggi, però, il tono ironico sembra essere poco presente nella letteratura più contemporanea. Il motivo, credo, sta nel particolare atteggiamento in voga tra gli scrittori più recenti. Per poter far uso dell’ironia c’è bisogno infatti di cura dello stile – aspetto trascurato nella lingua piuttosto piatta dei romanzi di questi giorni – e di distacco dalla materia di cui si parla: l’autore si deve porre su un piano diverso e distante e trattare le sue storie e i suoi personaggi con lo sguardo gentile e curioso di un entomologo, per sottolinearne gli aspetti comici, per non prenderli troppo sul serio. Ecco perché la scrittura contemporanea è molto raramente ironica: in un’epoca di autori così ingombranti, impegnati nell’autofiction e a prendersi un sacco sul serio – con i loro drammucci del tutto ordinari, i loro pensieri elevati da eterni fuoricorso – l’autore raramente si concede la distanza necessaria per uno sguardo disincantato. Nei libri di oggi di solito c’è molto poco da ridere.
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La questione che è difficile ridere di ciò che aveva quel fine in passato - vuoi perché non afferriamo qualche dettaglio culturale, vuoi perché è trascorso troppo tempo - mi ha fatto riflettere anche sulla scarsa riproducibilità del genere: se anche una volta riesce a farmi ridere, difficilmente questo si ripeterà ad un secondo passaggio, quasi sicuramente no ad un terzo e così via. È un po' il discorso di come le barzellette, che tanto esaltavo da bambino, a riascoltarle oggi non otterrebbero alcuna reazione, se non al massimo disagio.
Tutta un'altra storia l'ironia, come giustamente scritto: sono d'accordo di come essa sappia resistere al tempo, ma soprattutto di come sia più funzionale nella letteratura anche a distanza di anni e senza la pretesa di voler ottenere una risata.