Una biblioteca
Nella scorsa puntata ho parlato di come cambia quello che si legge, crescendo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, potresti inoltrarlo a qualcuno che pensi apprezzerebbe. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Per qualche anno ho avuto la fortuna di passare molto tempo in una biblioteca straordinaria, quella della Scuola Normale Superiore (SNS) di Pisa. Il lettore accanito capirà presto, spero, i motivi che la rendono unica, e di cui vorrei scrivere oggi. Non la frequento da qualche anno e so che alcune cose sono cambiate nel frattempo: dovrò dunque, un poco a malincuore, parlarne al passato.
Per prima cosa, l’architettura della biblioteca era molto particolare. Gran parte dei libri è tuttora nel cosiddetto palazzo dell’Orologio (quello che vedete qui sopra), che si trova in piazza dei Cavalieri, nel centro di Pisa. È un edificio molto antico, che ha inglobato anche una torre medievale in cui, ai tempi di Dante, morì il conte Ugolino della Gherardesca: murato vivo insieme ai suoi figli e lasciato morire di fame, una fine che ispirò alcuni versi celebri della Divina Commedia. Ma l’accesso non era, come ci si potrebbe aspettare, al piano terra della costruzione, bensì nel palazzo della Carovana, la sede centrale della SNS, che si trova dall’altra parte della piazza.
A collegare i due palazzi c’era un tunnel sotterraneo che sembrava uscito da un film sulla Guerra fredda, di quelli con i bunker e le basi segrete. Grigio e umido, alto poco più di due metri e largo forse tre o quattro, illuminato da luci al neon, aveva un tracciato curvo che impediva di vedere chi stesse arrivando dall’altra parte, anche se i lastroni scuri del pavimento, che facevano rumore quasi a ogni passo, annunciavano in modo un po’ inquietante se là sotto stava passando qualcun altro. Sembrava una prova di coraggio per chi soffrisse di claustrofobia, costruito in fretta e badando solo alla funzionalità, come un rifugio antiaereo.
Il tunnel era in contrasto con la sala spaziosa ed austera da cui partiva – la sala dei dizionari, in cui ci si fermava quando si aveva solo poco tempo – e con l’antico palazzo a cui arrivava, quello dell’Orologio appunto, fatto di sei piani in cui i libri erano divisi per materie. Al primo, alcuni fondi storici e qualcosa di storia dell’arte; al secondo, linguistica; al terzo – il più spazioso – lettere classiche; al quarto, lettere moderne, e poi storia al quinto e filosofia al sesto.
I piani avevano poche di quelle ampie stanze luminose che tendiamo ad associare alle biblioteche moderne. Erano per lo più una successione di stanze e stanzette di forme e dimensioni irregolari, alcune con il soffitto basso, altre con soppalchi scricchiolanti, che richiedevano una certa maestria ad essere navigate con sicurezza. Il quarto in particolare, quello che ho frequentato di più, assomigliava a quei vecchi appartamenti di una volta, quando le famiglie erano grandi e si cercava di ricavare più stanze possibili. Erano i libri ad essersi accomodati alla struttura, e non viceversa: e le librerie erano dappertutto, dividendo le stanze in anfratti ancora più stretti, cresciute in modo da occupare tutti gli spazi disponibili e creando nicchie, corridoi, zone d’ombra e vicoli ciechi.
Come un’edera su una facciata antica, le scaffalature – in legno o in metallo – sembravano aver invaso il palazzo lentamente, nel corso degli anni e dei secoli, anche se in realtà il palazzo dell’Orologio è sede principale della biblioteca soltanto da una quarantina d’anni. E proprio come un’edera, i libri erano cresciuti anche in posti inattesi, come sfuggendo ai tentativi di limitarli a un palazzo o a un piano. Anche nel palazzo della Carovana ce n’erano parecchi, sopra il pian terreno dell’ingresso, delle riviste e dei dizionari, salendo per alcune scale seminascoste che portavano su altre stanze che davano su inattesi cortili. Qui i limiti della biblioteca erano porte allarmate o cordicelle tirate alle basi delle rampe. Sembrava solo questione di tempo prima che la crescita superasse anche quegli argini assai precari, fino a prendersi anche l’altra struttura, tutta la piazza – e non solo, dato che altri palazzi dei dintorni erano adibiti a deposito o a succursali.
La biblioteca della SNS era quasi del tutto a scaffale aperto. Significa che il suo patrimonio era liberamente accessibile da tutti gli utenti, che potevano cercare sul catalogo la posizione del libro che cercavano e andarlo a recuperare in autonomia sullo scaffale. Con circa ottocentomila titoli, poteva ambire a una ragionevole completezza nel numero di materie tutto sommato ristretto su cui si concentrava.
Al lettore accanito, che si voleva lasciar guidare dalla sola curiosità dimenticando per qualche ora le scadenze di esami, seminari, tesi e tesine, erano quindi concesse formidabili divagazioni libresche, dato che, se nelle note a piè di pagina di un libro oscuro si trovava il riferimento a una storia interessante contenuta in un libro ancor più oscuro, c’erano ottime possibilità che anche quest’ultimo fosse da qualche parte nella biblioteca: e spinto solo dalla voglia di tenere quel libro per le mani, o rispondere al suo ozioso desiderio del momento, ci si poteva spingere a un’esplorazione in qualche scaffale poco frequentato, o in qualche piano di solito poco battuto. Ricordo i testi enormemente affascinanti nascosti in una piccola sezione di storia del libro, su un soppalco del primo piano avvolto nella semioscurità, oppure la collezione formidabile di riviste, che per uno studioso di letteratura avevano più o meno tutto quanto si potesse desiderare. Così come poteva succedere di scegliersi un libro da leggere soltanto perché se ne notava il dorso su uno scaffale vicino: questo è il motivo, ad esempio, per cui mi capitò di leggere I vicerè di De Roberto, che tutt’oggi riuscirei a ritrovare al suo posto, al quarto piano.
Riflettendo la cultura decisamente votata al passato e alla tradizione che allora regnava nell’istituzione, gli spazi della biblioteca erano austeri, gli arredi dall’aria vecchiotta: oltre alle scaffalature c’erano solo grossi tavoli in legno più o meno malmessi, sedie di legno malferme, qualche computer un po’ scassato, buono solo per cercare nei cataloghi. Anche questo aumentava l’impressione della biblioteca come di un luogo assai antico, che cambiava poco o nulla, o lo faceva al passo impercettibile delle piante.
Nell’ultimo periodo della mia permanenza a Pisa, la biblioteca decise di introdurre le aperture serali. Per me erano il massimo: mi è sempre piaciuto restare sveglio fino a tardi e leggere la sera, mentre gran parte dei miei coetanei, più legati a orari rispettabili, tendevano a disertare gli orari del dopocena. A volte mi ritrovavo da solo su un piano intero, ed era come sentirsi padroni dell’intero palazzo, avere una sterminata biblioteca personale a propria disposizione. Mi è successo diverse volte d’estate, con le finestre spalancate per far entrare un po’ d’aria e il brusio indistinto che arrivava dalla strada. Mi è capitato di restarmene lì in contemplazione, senza far nulla se non guardare fuori dalla finestra. Solo con tutti i libri del mondo: momenti di pura gioia, per il lettore accanito.
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