Nella scorsa puntata ho parlato della solitudine della lettura. Se quello che leggi qui sotto ti piace, potresti inoltrarlo a qualcuno che pensi apprezzerebbe. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Solo da quando ho cominciato a tener traccia dei libri che leggo in un’ordinata tabella, ovvero da un paio d’anni, ho avuto modo di accorgermi di un’evoluzione nella mia carriera di lettore: un cambiamento, potremmo dire, nella mia dieta di lettura. Leggo infatti un numero sorprendentemente basso di romanzi e racconti, nonostante mi consideri soprattutto un appassionato di letteratura. Lo scorso anno, solo un titolo su quattro tra quelli che ho letto era di narrativa, e nei primi mesi di quest’anno ho terminato soltanto un romanzo.
È un cambiamento che ho notato di recente ma che, a ben pensarci, era in atto da tempo: da ragazzo, per quanto posso ricordare, la proporzione era molto sbilanciata verso i romanzi. Prima dell’università credo di aver letto ben pochi saggi. Poi gli studi mi hanno portato a molte letture saggistiche, talvolta obbligate, spesso volontarie. Non pochi testi di storia o di critica letteraria, infatti, sono stati per me esperienze tanto appaganti e arricchenti quanto i migliori romanzi. Ricordo ancora il piacere che mi diede Nessuna passione spenta di George Steiner, una raccolta di saggi di un grande critico letterario in cui mi ero imbattuto quasi per caso nel primo anno di università.
Ma ormai ho finito l’università da più di dieci anni e non ho più libri da leggere per dovere di studio. Perché quindi ho perseverato, fino a ridurre la narrativa a una minoranza? Non so quanto questo fenomeno sia comune, e quindi mi addentro forse in ruminazioni autobiografiche di scarso o nessun interesse. Ma portate pazienza: ho un indizio che sia qualcosa che non succede solo a me.
C’è un’intervista a Cormac McCarthy di qualche anno fa, credo più o meno intorno all’uscita de La strada, in cui lo scrittore americano dichiarava di leggere ormai soltanto saggi. Il particolare mi è rimasto impresso a distanza di tanti anni (e a intervista ormai irrintracciabile). Come è possibile che uno dei più grandi scrittori contemporanei non legga libri di narrativa?
Parte della spiegazione potrebbe essere che il confine tra narrativa e saggistica si è andato confondendo e assottigliando. I saggi divulgativi ci hanno abituato a ricostruzioni di fatti reali anche molto rigorose, ma che si leggono comunque come opere di narrativa. Hanno personaggi ben approfonditi, intrecci coinvolgenti, colpi di scena e scene ad effetto. Lo scorso anno ho letto una storia del disastro di Chernobyl (Midnight in Chernobyl, di Adam Higginbotham, pubblicato in Italia da Mondadori) che scorre come un romanzo, con in più il brivido di sapere che è tutto vero.
L’influenza funziona probabilmente anche nella direzione inversa. Parecchi scrittori oggi partono da una ricerca storica dettagliata, fino a fare della narrazione di un fatto di cronaca, o di una vicenda più o meno recente, il centro stesso del loro racconto. Ne è un ottimo esempio Antonio Scurati con il suo M, non a caso uno dei romanzi italiani più di successo degli ultimi anni. Per non parlare di Emmanuel Carrère, che ha costruito tutta la sua carriera sull’individuare e raccontare casi e vicende umane straordinarie ma reali.
Azzardo: è come se le storie di invenzione abbiano perso almeno in parte la loro forza e che oggi, ai tempi del true crime e dei podcast che raccontano storie vere, è la realtà a fornirci già abbastanza prodotti culturali appassionanti e coinvolgenti, senza bisogno di rivolgerci ai romanzi per soddisfare il nostro umano bisogno di racconti.
Anche senza spingersi tanto in là, mi sembra innegabile che oggi i saggi accessibili siano moltissimi – soprattutto anglosassoni, visto che mi sembra che da queste parti ci sia un problema nel settore – e che la loro qualità sia spesso molto alta. È ragionevole pensare che facciano un po’ di concorrenza anche al settore narrativo.
E poi ci sono forse anche motivazioni meramente anagrafiche – si cresce e ci si comincia a interessare a cose da grandi, all’economia e alla politica, ai temi del dibattito pubblico. La scienza ha molte risposte e ad essa normalmente ci si rivolge, assai più che alla letteratura, per darci le lenti con cui leggere il mondo: non a caso McCarthy, negli ultimi anni, vive in mezzo agli scienziati in un centro di ricerca del New Mexico.
Dopotutto, se una delle motivazioni della lettura è la curiosità, il desiderio di conoscere l’essere umano, le sue vicende, il mondo che ci circonda, è normale che il lettore accanito sia attirato di tanto in tanto fuori dai confini della letteratura, verso le ultime scoperte delle neuroscienze o dell’etologia. Credo che leggere un bel romanzo resti un’esperienza unica e straordinaria: ma là fuori, c’è poco da fare, c’è troppa concorrenza.
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Ciao! Noto anch'io la tendenza dei miei coetanei (30-40 anni) di prediligere i saggi: si appagano curiosità "contingenti", lavorative e peraltro si hanno persino più argomenti di discussione. Io mi scosto dal trend perchè non desidero conoscenze tecniche al di fuori del lavoro e preferisco sondare l'animo umano, l'umanità in senso puro attraverso l'ottima narrativa.
Ps: ho conosciuto da poco la tua NL e wow! grazie per ciò che fai!