Nella scorsa puntata ho parlato dei molti nemici della lettura. Se quello che leggi qui sotto ti piace, potresti inoltrarlo a qualcuno che pensi apprezzerebbe. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Non so nulla di tennis, e sono sempre diffidente nei confronti dei libri di moda – aspetto mesi o anni prima di leggerli e mi ci approccio sospettoso, per dirmi poi quando ormai tutti se ne sono dimenticati: questo in effetti era un capolavoro, oppure: tutto qui? – ma da molto tempo ho in mente un concetto che si trova, a quanto mi hanno detto, nella famosissima biografia di Andre Agassi, Open. È un libro che non ho mai letto: il concetto mi viene da qualcuno che una volta me lo raccontò, oppure che ne scrisse in un post su un blog, o da qualche parte su Internet, vai a sapere.
Eccolo, quel pensiero: il tennis è lo sport più solitario che ci sia. Come tutti gli assoluti, è probabilmente falso – ho letto pochi giorni fa un articolo molto interessante su quanto la Formula 1 sia esigente per il fisico e non credo che, lanciati in un missile di metallo ai centottanta all’ora, ci si senta particolarmente in compagnia – ma lo spunto è affascinante.
In questi giorni sto riflettendo su quanto anche la lettura sia un’attività intima e personale nel massimo grado. Non che sia sempre stato così. Per secoli la lettura è stata soprattutto un affare sociale, un’attività collettiva: i libri non erano fatti per essere letti silenziosamente, nel chiuso della propria stanza, ma ad alta voce, davanti a un pubblico più o meno ampio composto ad esempio dai familiari. Così doveva essere per i romanzi arturiani nel Medioevo – Paolo e Francesca che leggono insieme il libro galeotto – e per la poesia dei trovatori, con ogni probabilità composta per essere addirittura cantata.
C’è un celebre episodio della storia della cultura, citato in tutte le storie del libro, in cui Sant’Agostino osserva con curiosità e ammirazione il suo maestro, Sant’Ambrogio, che legge senza muovere la bocca: fatto che doveva dunque sembrargli strano, inusuale. Certo, la lettura silenziosa era sempre stata tecnicamente possibile: ma le caratteristiche del libro, oggetto raro, prezioso e ingombrante, e le caratteristiche della società antica e medievale, in cui il concetto di riservatezza e privacy doveva essere molto meno stringente di oggi, la rendevano probabilmente una pratica poco diffusa.
Ma quei tempi sono senz’altro lontani e, anzi, ci sarebbe da riflettere sul fatto che la lettura pubblica è di fatto scomparsa. E poche attività sono così identificate con il silenzioso raccoglimento, con l’isolamento personale come la lettura. La lettura chiama luoghi adeguati e rumori ridotti; ragionevole assenza di preoccupazioni pressanti; accurata scelta del libro giusto per il momento giusto. Tutti elementi che ne fanno un’esperienza solitaria come poche altre.
C’è dell’altro. L’esperienza della lettura evoca ricordi e accende catene di pensieri che sono strettamente personali e in larga parte incontrollabili, ma soprattutto intime e irripetibili. Un libro è tanto più grande quanto è in grado di parlare sì di verità universali tramite le storie particolari che racconta – un’ottima definizione di capolavoro che lessi tempo fa chissà dove – ma allo stesso tempo quanto è capace di far risuonare corde profonde in chi lo legge, ricordargli le sue vergogne e le sue aspirazioni, i suoi problemi e i suoi momenti felici.
Spiegare perché questo o quel libro ci è sembrato tanto bello implicherebbe raccontare la storia intima della nostra vita: e spesso gli episodi più segreti e meno edificanti. Questo è anche il motivo per cui è molto facile spiegare perché un certo libro sia brutto, esercizio peraltro parecchio divertente, ma quasi impossibile perché un altro sia invece molto bello, essendo l’esperienza estetica della lettura così personale e, in sostanza, incomunicabile, che ogni recensione positiva suona sempre come una descrizione parziale e tangente di aspetti secondari. Sarà forse anche per questo che per parlare di un bel libro mancano sempre le parole, e ci si limita a sgranare gli occhi e a lanciarsi in iperboli di circostanza: perché alla fine non dovremmo parlare del libro, dovremmo parlare di noi.