Il problema italiano con i saggi
Tra il saggio leggerino e quello per iniziati, ci sarà pure una via di mezzo
Nella scorsa puntata ho parlato delle carriere degli scrittori. Se quello che leggete qui sotto vi piace e non siete ancora iscritti, potete ricevere questa newsletter nella vostra casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui. E magari consigliarla a qualcuno.
Qualche giorno fa ho cominciato un saggio recente di uno storico italiano. L’argomento era interessante ed attuale, il periodo trattato abbastanza vicino da non richiedere una grande conoscenza specialistica. Dopo qualche pagina, però, mi sono trovato in difficoltà: alcune frasi, per quanto le leggessi e rileggessi, apparivano contraddittorie, troppi dettagli erano dati per scontati. I personaggi entravano sulla scena senza presentazione, l’autore sembrava criticare punti di vista che non venivano esplicitati. Mi sono ripromesso di insistere, ma nessuna di queste sere ho trovato la voglia di riprenderlo in mano.
Se c’è una cosa che in Italia oggi non riesce bene è scrivere saggi. Libri che siano informativi, gradevoli da leggere e accessibili anche per i non specialisti. Due trappole di opposte caratteristiche ma uguale gravità sembrano inevitabili per gli autori nostrani.
La prima è quella del libro leggerino: non nei toni, giacché il saggista italiano tende naturalmente alla seriosità, ma nella ricerca sui temi trattati, nella capacità di dare struttura, nella scorrevolezza della scrittura. È un problema che si avverte soprattutto nelle opere dei giornalisti, spesso leggere come l’acqua, che una volta finite si dimenticano con la rapidità con cui le si sono letti. Scorrono, scorrono: e il lettore si rende conto che sul tema ha letto qualche articolo, magari straniero, che diceva di più e meglio. O che anche solo una breve ricerca su Google fa scoprire errori grossolani, numeri inventati, storie non verificate di seconda o terza mano.
La seconda trappola è quella del libro per iniziati, un genere in cui eccellono gli accademici. Per motivi insondabili, chi insegna nelle università del nostro paese e dà alle stampe un volume mette un grande impegno nel rendere il suo testo il più possibile inavvicinabile per chi non sia uno specialista della materia. Giacché il tema potrebbe essere molto specifico, come le liriche giovanili del Sannazaro o la Parma del 1720, è assai probabile che il numero di tali specialisti attualmente in vita non sia di molto superiore alle dita di una sola mano. La scelta di pubblicare un libro che ha solo quattro o cinque possibili lettori, tuttavia, mi pare discutibile, se non altro dal punto di vista commerciale.
La via di mezzo, quella del non accademico che ha fatto tutti i compiti a casa ed evita di fare brutte figure con il lettore mediamente informato, o di converso quella del titolare di cattedra che riesce a rendere la sua materia comprensibile anche per i comuni mortali, è merce rara nel nostro panorama editoriale.
L’esterofilia è un segnale doloroso del nostro essere alla periferia dell’impero, ma devo ammettere che nel mondo anglosassone la capacità nella scrittura saggistica è molto più diffusa e fornisce con costanza eccellenti risultati. Anche i libri per specialisti hanno una sorprendente facilità di lettura. Qualche mese fa ho avuto per le mani un libro sulle origini della leggenda di Artù (King Arthur: The Making of the Legend, di Nicholas Higham, pubblicato nel 2019) ed era sorprendente come – ammesso, certo, un interesse per il tema – si leggesse senza la minima difficoltà, senza ricorrere a vocaboli oscuri, senza costruire periodi a scatole cinesi.
Anche un mediocre saggio americano – e che ne sono, oh se ce ne sono – ha una struttura chiara, una scrittura scorrevole, una tesi evidente. Mentre dalle nostre parti ci si muove ancora come se il primo fine di un libro non fosse quello, banale, di essere letto da altri esseri umani. Certo il prodotto “medio” in inglese mantiene una certa aria industriale, da prodotto in serie, che peraltro si ritrova anche nella scrittura giornalistica. Gli articoli del New York Times sono così simili l’uno all’altro, quanto a stile e struttura, che sembrano scritti tutti dalla stessa persona. La nostra anima mediterranea rifiuta tale impersonale appiattimento.
Ho molte ipotesi, ma nessuna certezza, sulle origini di questa caratteristica patria. Il saggista italiano sembra preoccupato in primo luogo di dimostrare la propria cultura, o la propria intelligenza, o l’abilità nell’utilizzo di aggettivi come ctonio ed evenemenziale: leggendo saggi nostrani mi trovo a volte a riscrivere mentalmente certe frasi, anche solo sostituendo qualche parola, per renderle in una versione più comprensibile della nostra lingua.
Forse è in parte anche amore per il bello stile, come si vede nella nostra scrittura giornalistica, in cui da sempre le grandi penne lo sono state anche e soprattutto per un uso personalissimo della lingua. In parte deve essere qualcosa di più profondo, l’idea che la conoscenza sia cosa per pochi; oppure l’eterna divisione in gruppi e consorterie, per cui i veri destinatari di tanti saggi sono gli amici (o i nemici) che parlano la stessa lingua e colgono i riferimenti nascosti.
Certo non è un caso che su tanti temi recenti e importanti della nostra storia manchi la chiarezza e, prima ancora, una conoscenza condivisa e diffusa che eviti la diffusione delle ricostruzioni fantasiose e più o meno campate per aria. Penso agli anni di piombo, o agli scandali della Prima Repubblica, o alla biografia di personaggi celebri: possibile che non esista ancora una biografia di riferimento di Gianni Agnelli o Silvio Berlusconi? Il motivo è semplice: non siamo capaci di scriverli, quei libri.
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