Nella scorsa puntata ho parlato di libri che fanno arrabbiare. Se quello che leggete qui sotto vi piace e non siete ancora iscritti, potete ricevere questa newsletter direttamente nella vostra casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui. E magari consigliarla a qualcuno.
È comune ai giorni nostri una certa idea romantica di letteratura secondo cui la scrittura è una sorta di dono miracoloso, che càpita in sorte ad alcuni come una qualità innata. Necessari e sufficienti sarebbero il talento e l’ispirazione: e il grande scrittore, dunque, è nato possedendoli, non dovendo fare altro che assecondare le sue naturali inclinazioni.
Se guardiamo alle carriere degli autori, però, notiamo una straordinaria varietà. Me lo ha ricordato il mio amico Paolo qualche giorno fa, scrivendomi una verità semplice ma dalle numerose implicazioni: ci sono scrittori che hanno una produzione di simile livello per tutta la carriera e altri, invece, che scrivono uno o pochi libri di grande valore in mezzo a tanto altro di assai minor interesse.
I risultati diseguali, a dirla tutta, sono più la norma che l’eccezione. Gli scrittori sono solitamente incostanti. Uno dei miei autori preferiti, Jorge Luis Borges, ha pubblicato forse due soli libri memorabili (L’Aleph e Finzioni) e diversi altri assai più dimenticabili. Umberto Eco ha detto gran parte di quanto avesse da dire nel suo primo romanzo, Il nome della rosa, limitandosi poi a riapplicare la stessa formula – il centone di opere altrui, più o meno abilmente collegate – con risultati via via meno convincenti. Se si permettono gli accostamenti arditi, appartengono a questa schiera Michel Houellebecq e Chuck Palahniuk, così come, tornando in Italia, Dino Buzzati (dopo Il deserto dei Tartari, poco altro) oppure Goffredo Parise (autore di una bella opera giovanile come Il prete bello).
Di solito la qualità scende in una curva costante, più o meno ripida. È raro che chi ha preso la strada di riscrivere sempre lo stesso libro, solo ogni volta un po’ peggiore, si riprenda. Spesso prova altre strade, ugualmente senza uscita. Mi viene in mente una sola eccezione notevole: Italo Calvino, che dopo una prima fase di grande valore riuscì, negli anni Settanta, a pubblicare quel gioiello delle Città invisibili e qualche anno più tardi quel pastrocchio inavvicinabile di Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Ma esistono anche gli scrittori costanti. Tra questi, alcuni lo sono in un’aurea mediocrità – senza intendere il termine in accezione negativa – e qui citerò Andrea Camilleri, capace di produrre decine di titoli tutti gradevoli e piacevolmente dimenticabili. Sospetto che i grandi autori di genere rientrino spesso in questa categoria. Altri, di cui non farò il nome, giacché me ne vengono alla mente diversi viventi, hanno l’invidiabile capacità di dare alle stampe solo titoli brutti o, in rari casi, intollerabilmente brutti, che meriterebbero uno studio psicologico sull’allucinazione collettiva che ne permette ogni volta la pubblicazione.
Per mancanza di prove contrarie bisognerà includere tra gli scrittori costanti anche quei casi, in apparenza assai singolari, di autori che hanno scritto un solo libro, che è anche un capolavoro, e poco, a volte nulla, di altro. Tra gli esempi più puri nella categoria ci sono Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Marcel Proust o Stefano D’Arrigo. Il mio amico Dario aggiungerebbe senz’altro anche Harper Lee, autrice del Buio oltre la siepe, ma ancora non l’ho letto, dunque lo includo sulla fiducia.
E tra i costanti spiccano come unici per i quali ammetteremo una soprannaturale ispirazione: gli autori che hanno scritto soltanto capolavori. Qui i nomi che vengono alla mente sono Franz Kafka, J.D. Salinger, Philip Roth, José Saramago o Thomas Mann (anche se ammetto di non aver mai concluso il Doctor Faustus, come i lettori più affezionati ricorderanno). Rari esempi di cui non si troverà una sola opera che non sia straordinaria.
Questa rassegna assai parziale e certo troppo rapida vuole essere una prima dimostrazione del fatto che l’abilità letteraria non sia per la maggior parte una questione di estro e intuizione: se infatti la scrittura fosse un dono naturale, chi ne è in possesso dovrebbe essere in grado di sfruttarla ogni volta, attingendo a quella sua invidiabile qualità.
A questo punto vale la pena notare che la scrittura, come ogni forma d’arte, ha bisogno di un periodo di apprendistato. Forse più che in altri campi è impossibile produrre una grande opera senza una quantità considerevole di risultati di poco o nessun valore. Prima della maturità (letteraria, ma anche anagrafica: non esistono, per quanto ne so, cose di rilievo scritte da bambini o adolescenti) gli scritti giovanili dei diversi autori tendono a essere un campo per gli studiosi e gli specialisti: si tratta di testi piuttosto brutti o insignificanti. Non è un caso che diversi scrittori (ad esempio Borges) abbiano cercato di cancellare o far dimenticare molto di quanto avevano pubblicato da giovani.
E dunque è vero che gli scrittori hanno carriere diseguali, come del resto i musicisti o i calciatori. Vorremmo che non fosse così: che l’arte, misteriosa e consolatoria qual è, fosse un dono concesso una volta per tutte. Se non a noi, almeno a qualcun altro là fuori. Non è così. Ogni grande opera, e a maggior ragione quelle meno grandi, richiedono un sacco di apprendimento, tentativi, fatica, e pure con quelli il risultato non è per nulla assicurato.
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