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Borges scrive da qualche parte che accettava volentieri gli inviti a parlare nelle conferenze dell’Ulisse di Joyce, soprattutto perché non lo aveva mai letto tutto. Non sappiamo dove si sia arrestato il grande scrittore, né se dopo la sua sardonica osservazione abbia completato la lettura, ma possiamo immaginare che non gli mancasse né il tempo né la volontà. Forse Borges aveva interrotto l’Ulisse perché lo aveva trovato… terribilmente noioso?
Uno degli enigmi più affascinanti nella mia carriera di lettore è quello dei libri noiosi. Negli ultimi tempi, e con un certo stupore, sono arrivato alla conclusione che la noiosità di un libro è del tutto indipendente dal valore estetico dello stesso, oppure, volendo dirla in parole più semplici, che ci sono libri bellissimi e noiosi, così come libri brutti e tutto sommato divertenti.
Faccio un esempio. I Buddenbrook, il romanzo d’esordio di Thomas Mann, è un capolavoro e allo stesso tempo un libro accessibile, scorrevole perfino. Alcuni dei suoi libri successivi sono assai più ostici. La montagna magica – pubblicato dallo stesso autore più di vent’anni più tardi – è un altro capolavoro, ma a tratti è irresistibilmente soporifero. Ho fatto un tentativo anche con il celebre Doctor Faustus, ma non credo di aver superato pagina cento. La celebre descrizione della sonata di Beethoven, che nella mia memoria si dilata per decine di pagine, è stata troppo per me.
Se esistono bei libri che annoiano, non bisogna però sopravvalutarne la frequenza. Mi spingerei fino a dire che la maggior parte dei libri noiosi sono anche brutti, oppure, il che è lo stesso, che i brutti libri sono di solito noiosi. Qui la lista è perfino troppo lunga e non mi ci metto neanche. Ma ricordo l’esperienza tremenda di leggere un romanzo di un celebrato autore contemporaneo – con il fine di scriverci una stroncatura – e smettere per il dolore quasi fisico che mi dava leggere pagine e pagine di quella robaccia di nessun interesse.
Vale piuttosto la pena di notare alcune eccezioni che rinforzano il principio da cui siamo partiti, quello della noia come qualità autonoma: i libri bruttini o privi di meriti letterari che però sono divertenti. Una delle prime cose che ho letto sul Kindle è stata l’intera trilogia di Stieg Larsson. Oggi non ne ricordo assolutamente nulla – né un’immagine, né la trama a grandi linee, niente di niente – e mi resta l’impressione che si trattasse di libri del tutto dimenticabili. Ma tutt’altro che noiosi: anzi, scorrevano come l’acqua.
Ci si vergogna ad ammettere di essersi annoiati in compagnia di un capolavoro riconosciuto. Una visione romantica della letteratura – quella più diffusa oggi – vuole che, trattandosi di arte, tutte le sue manifestazioni siano piacevoli, positive, arricchenti; e che, se così non è, il motivo sta in una mancanza di preparazione o di attitudine del lettore.
Questa vergogna è del tutto immotivata. La letteratura non ha certo l’unico fine di dilettare il lettore: altrimenti si scriverebbero solo barzellette. Ci sono molti altri fini in un libro, non tutti volti al piacere e non tutti indirizzati al lettore. Certo, oggi è rischiosissimo annoiare il lettore. Siamo tutti a un click di distanza dai social network o da Netflix: pochi attimi di calo dell’attenzione e via, il libro ci perde facilmente a vantaggio del cellulare o di una serie.
Ma in molti casi la fatica e persino la noia nella lettura è uno sforzo necessario per arrivare al risultato incredibilmente appagante di “domare” un grande libro. Nella mia carriera di lettore mi sono annoiato un sacco di volte – leggendo i monologhi infiniti di Dostoevskij, la prosa oscura di D’Arrigo, i punti di vista misteriosi di Faulkner e molto, molto altro – e solo in alcuni casi ho resistito. Quando ce l’ho fatta, spesso non ne sono rimasto deluso.
Il lettore diligente sa che il suo sport è in alcuni casi un po’ come allenarsi per la maratona: la fatica di oggi per un risultato domani. Mi chiedo anzi se parte del valore attribuito ad alcuni grandi libri non venga proprio dalla loro difficoltà, dal loro carattere di sfida. Ci sentiamo speciali per aver finito un tomo di seicento pagine anche per il solo fatto di averlo completato, di aver investito tante energie e attenzione in una sola opera (non trovo altre forme d’arte che richiedono una fruizione così intensa e continuata come i libri). L’Ulisse sarebbe davvero l’Ulisse se fosse lungo centoventi pagine?
Foto: Benjamín Gremler su Unsplash