Nella scorsa puntata ho parlato dello stile paranoico italiano, un tentativo di rispondere alla domanda: perché da noi c’è sempre sotto qualcosa? Diversi di voi mi hanno risposto con messaggi molto interessanti, la maggior parte dei quali per esprimere disaccordo, totale o parziale, con la mia idea. Sono state conversazioni molto piacevoli. Se quello che trovate qui vi piace e non siete ancora iscritti, potete ricevere questa newsletter comodamente nella vostra casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Alla fine del saggio Il metodo Machiavelli (Rizzoli 2019), l’autore Antonio Funiciello – consigliere di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi dal 2016 al 2018 – descrive la scena in cui lascia il suo ufficio. Tra quello che deve riportarsi a casa c’è un poster elettorale di Lyndon Johnson per le presidenziali del 1964, «la prima cosa – scrive – su cui cadeva l’occhio di chiunque entrasse nel mio ufficio». Lo stesso libro dedica un intero capitolo (su sei) alla figura di «Louis Howe, l’ombra di Roosevelt».
Il libro di Funiciello è del tutto dimenticabile, ma il particolare del poster mi è tornato in mente qualche giorno fa, durante l’inaugurazione di Joe Biden e Kamala Harris come presidente e vicepresidente degli Stati Uniti. Durante il giorno seguo le notizie e l’attualità per lo più tramite Twitter e per motivi professionali seguo molti giornalisti italiani. Quel pomeriggio un sacco di gente, dall’Italia, seguiva e commentava in diretta l’evento.
Diversi commentatori italiani erano molto coinvolti. Al momento del giuramento di Kamala Harris come vicepresidente — prima donna, prima afroamericana e prima persona di origini asiatiche in quel ruolo — ho letto di brividi e lacrime, di emozioni fortissime e così via. È forse un limite della mia sensibilità e della mia comprensione, ma mi sembra che gli indubbi progressi e le evoluzioni di chi riveste cariche pubbliche negli Stati Uniti possa avere per un italiano al massimo un interesse di tipo storico o intellettuale. Ma l’entusiasmo per Kamala Harris, così come il poster del consigliere di Gentiloni, sono solo i sintomi più evidenti di una dipendenza culturale dagli Stati Uniti che è visibile dappertutto e su cui pure si tende a riflettere poco. Una dipendenza che a volte ha effetti piuttosto spiazzanti.
Un esempio da qualche mese fa, prima che cominciasse la pandemia. Il 10 dicembre 2019, durante una riunione con i sindacati, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri annunciò su Twitter che «prende[va] corpo il piano per il rilancio dell’Italia» aggiungendo poi l’hashtag: #GreenNewDeal. Ho visto riferimenti al “Green New Deal” da parte di esponenti politici della sinistra italiana per mesi e ancora li vedo. Ogni volta mi chiedo che senso abbia chiamare in causa il piano di rilancio americano per parlare di italiane, italianissime misure.
Il Green New Deal è una specie di libro dei sogni presentato dalla sinistra del Partito democratico statunitense all’inizio del 2019 per tirare dalla sua parte il resto del partito, con all’interno una serie di misure molto diverse e molto ambiziose – tutte però pensate per gli Stati Uniti, presentate negli Stati Uniti, inserite nel dibattito politico degli Stati Uniti. È anche un chiaro riferimento al programma di misure radicali messe in atto negli Stati Uniti degli anni Trenta da Franklin Roosevelt. Che cosa c’entra tutto questo con noi, con l’Italia?
Se la politica cade in queste tentazioni esterofile, la società civile non sembra immune. A giugno del 2020, in alcune città italiana – ricordo distintamente le foto da piazza Duomo, a Milano – ci furono proteste in cui i manifestanti esibivano cartelli “Black Lives Matter”, in solidarietà con quanto stava succedendo negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd. Ogni protesta contro il razzismo è benedetta, ci mancherebbe, ma il problema negli Stati Uniti non ha quasi nulla a che fare con noi. In Italia l’emigrazione è diventata un fenomeno rilevante soltanto a partire dagli anni Novanta (nel 1995 gli stranieri regolarmente residenti in Italia erano circa 730 mila, oggi sono cinque milioni). Le proteste al di là dell’Atlantico parlano di ferite mai sanate dall’era della schiavitù e della segregazione razziale che è proseguita per un secolo dopo la fine della guerra civile.
Una storia ricca e complessa, dolorosa e affascinante, ma che cosa c’entriamo noi? E perché allora storie atroci come il pestaggio in carcere a San Gimignano di un ragazzo tunisino, di cui sono emersi i filmati in questi giorni, non suscita la stessa indignazione e le stesse proteste in piazza Duomo? Quello è il nostro razzismo. Ma non porta in piazza nessuno.
Il nostro stato di subalternità culturale, che ci porta a trovare interessante e coinvolgente a prescindere quanto succede negli Stati Uniti, si vede anche nei nostri media. Lo spazio dato a fenomeni culturali americani è del tutto sproporzionato – riviste culturali italiane sembrano scritte a Brooklyn – e lo stesso succede per la politica interna americana sui giornali cartacei. Fino ad estremi come una famosa testata online che dedica ogni anno un articolo alla cerimonia del Giorno della Marmotta di Punxsutawney, Pennsylvania. Con intento scherzoso, certo, ma intanto…
Di certo è un fenomeno che a Milano si vede più che altrove. E naturalmente i motivi alla sua base mi sono chiari: la quantità (e spesso la qualità) di prodotti culturali, strumenti tecnologici e informazioni che vengono dagli Stati Uniti è molto alta, dato che si tratta della più grande economia del mondo e dell’unica superpotenza globale (o per lo meno di quella egemone in Occidente). Io stesso, se passo in rassegna quello che guardo, leggo o ascolto, sono tutt’altro che un autarchico, e mi rendo conto di ascoltare non uno ma due podcast di notizie al giorno… dagli Stati Uniti.
Eppure mi sembra triste chi si esprime come se vivesse a San Francisco, chi importa di peso polemiche che non lo riguardano, chi si commuove per la retorica sfacciata – e per un europeo, diciamocelo francamente, insopportabile – che gli americani esibiscono tanto spesso nel discorso pubblico e nelle loro manifestazioni culturali.
E d’altra parte non mi sembra neppure la soluzione passare a un sovranismo straccione, che peraltro si avverte spesso nella cultura nostrana, per cui bisogna riscoprire la grandezza di Leonida Repaci (nulla di personale e neppure nulla di letto di lui, ma per capirci) e celebrare tutti i giorni i capolavori di cinque o sei secoli fa. La strada difficile, forse impossibile, è trovare la via di mezzo, renderci conto di quanto siamo diversi, magari parlare un po’ di meno di quello che succede a New York.
Bravo, finalmente una persona che ha il coraggio di "dirlo"!