Nella scorsa puntata ho parlato del discorso impossibile sui libri. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Chiunque abbia velleità letterarie si imbatte spesso in consigli su come scrivere. Io seguo un account Twitter che raccoglie e diffonde suggerimenti per gli (aspiranti) scrittori, come mette in chiaro il nome stesso dell’account, @AdviceToWriters. Le istruzioni sono brevi e sintetiche, approcciano i più diversi temi che hanno a che fare con la scrittura e spesso sconfinano nell’enigma. Un esempio:
Finisci la giornata di scrittura quando vuoi ancora proseguire.
Oppure:
Rendi esotico il familiare; familiare l’esotico.
In generale, i consigli per gli scrittori hanno la caratteristica di contraddirsi l’un l’altro con inquietante frequenza. A volte si consiglia di scrivere solo delle cose che si conoscono e delle proprie esperienze, altre di dimenticarsi di sé stessi e di cercare belle storie altrove. Quello che per un autore risulta un peccato mortale, per un altro è la base della sua arte. L’aspirante scrittore, già incerto e bisognoso di conferme, potrebbe concludere che siano tutti dei cialtroni e che tanto vale rinunciare (come si fa a dedicarsi a qualcosa in cui ogni strada sembra al contempo la via del successo e la garanzia del fallimento?) oppure potrebbe, al contrario, decidere che tanto vale seguire solo il proprio istinto.
Difficile concludere se i raccoglitori di massime sulla scrittura stiano facendo più male che bene al movimento. La scrittura non si può insegnare, dice un famoso adagio, ma d’altra parte quando, all’università, un professore mi fece notare che iniziare una frase con un gerundio è mossa assai bolsa e inelegante, non potei che convenire con lui e vergognarmi del periodo che avevo scritto, e da allora meno gerundi vedo e meglio sto, anche e soprattutto in apertura di frase. Sull’efficacia stessa dei consigli di scrittura, bisogna concludere, si sente tutto e il suo contrario.
Non sono un frequentatore così assiduo del genere dei consigli per aspiranti autori, devo ammettere, ma mi sono imbattuto io stesso in un caso di patente contraddizione tra autorità letterarie. Il tema non era la forza dei dialoghi o la fonte dell’ispirazione, ma uno assai più prosaico, quello di come vada trattato fisicamente l’oggetto-libro.
Secondo un autore – credo fosse Sciascia in Nero su nero, ma potrei sbagliarmi – chi non legge con una matita in mano per almeno correggerne i refusi è un barbaro, mentre secondo un altro – e qui, abbiate pazienza, la memoria mi manca del tutto – chi fa le orecchie alle pagine o ne modifica in qualsiasi modo il contenuto è un selvaggio. Per uno, dunque, più un libro è vissuto, maggiore è la maturità del suo proprietario; per l’altro il libro è un oggetto sacro che deve passare il più possibile indenne dalle mani di chi lo frequenta.
Seguendo una tradizione familiare, ho l’abitudine di fare un’orecchia alle pagine che trovo particolarmente felici, segnandomi magari con un leggero segno laterale, rigorosamente a matita, il passo che mi ha colpito. Allo stesso tempo, provo un certo malessere davanti a come certi lettori trattano quello che stanno leggendo e lo stato miserando di certe edizioni, che dopo qualche settimana in mano loro acquistano un’aria vissuta come se usassero quotidianamente i volumi per affettare le cipolle, oppure sotto la doccia.
Il non plus ultra dello scempio mi appare sottolineare o annotare un libro a penna: per la permanenza e irreversibilità del gesto, che mi sembra uno sgarbo verso il successivo – e il più delle volte del tutto ipotetico – lettore. Anche se cedo spesso alla tentazione dell’orecchia, mi illudo che si tratti di un gesto reversibile e che basti spianare la pagina per farla, con il tempo, tornare come prima.
Si potrebbe ribattere che, nel mondo delle edizioni economiche di oggi, in cui i libri sono tanti e costano tutto sommato poco, intervenire sulla pagina con segno indelebile non è poi gran peccato. È senz’altro vero. Ma a riprova del carattere ancestrale della divisione tra chi lascia tracce di sé sui libri e chi non lo fa bisogna ricordare che molti manoscritti medievali, oggetti solitamente di lusso e che richiedevano suppergiù lo sterminio di un gregge di pecore per ciascun esemplare, presentano al lettore moderno un repertorio infinito di noterelle a margine, disegni e disegnini, sgorbietti e frasi le più diverse: persino chi doveva essere ben consapevole del costo enorme dell’oggetto che aveva di fronte non sapeva trattenersi. Che è un po’ come se, come blocchetto degli appunti, usassimo oggi la portiera esterna della nostra auto. Il mondo si divide insomma tra chi scarabocchia i libri a penna e chi non lo fa.
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