Nella scorsa puntata ho parlato di letteratura esibizionista. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Questa newsletter non dovrebbe esistere per diversi ottimi motivi, a cui penso ogni volta che comincio a lavorare ad una nuova uscita. Dunque tanto vale prendere il toro per le corna e affrontare i miei dubbi – o almeno il principale.
Tra i cambiamenti più importanti che registrano i manuali di teoria della comunicazione (io ho quello di Sara Bentivegna e Giovanni Boccia Artieri) c’è la fine del pubblico inteso come massa indistinta, a cui i mezzi di comunicazione potevano far arrivare il proprio messaggio in modo rigidamente verticale. Pensiamo alla televisione, alla radio o ai giornali dal secondo dopoguerra e fino suppergiù agli anni Ottanta, i mass media per eccellenza: il cittadino informato traeva le notizie più o meno sempre dallo stesso ridotto numero di fonti dei suoi concittadini, in modalità per lo più collettive e quasi rituali (il “tutti a letto dopo Carosello” della generazione del boom economico, la lettura serale del giornale da stereotipo di interno borghese). Non c’era interazione con il mezzo, i canali disponibili erano pochi, la scelta era molto limitata.
Oggi è tutto diverso e la situazione si è fatta assai più varia – se non addirittura confusa. Le fonti di informazioni sono tantissime, passando dai cinque o sei canali televisivi di una volta all’infinità di scelta dei canali satellitari, dai cinque o sei giornali principali alla miriade di siti internet, di qualsiasi specializzazione e linguaggio. Si può persino interagire con chi produce le informazioni, tramite i social network: si può commentare sulla pagina della testata o menzionare direttamente l’autore di un articolo per scatenare una discussione e, con un po’ di fortuna, persino ottenere una risposta. E quindi, ci dicono i manuali, non siamo più ai tempi dei mass media: ora è l’età dei network, della comunicazione decentralizzata e orizzontale.
Dal punto di vista del pubblico, quindi, si è passati da una sostanziale omogeneità a una serie di pubblici settoriali e specializzati. Nel mondo dell’informazione, c’è chi utilizza soltanto il New York Times online e la sua scelta di giornalisti su Twitter; chi solo Repubblica di carta; chi la pagina Instagram di un influencer con mezzo milione di abbonati; chi i video su YouTube di un intraprendente studente universitario che commenta le notizie ogni mattina; chi il podcast del suo giornalista preferito. La varietà di voci e strumenti è impressionante. Un numero inquietante di volte mi è capitato di imbattermi in un esperimento informativo che ha un numero di iscritti grande quanto una media provincia italiana e di cui non avevo mai sentito parlare.
Il risultato è che, ormai da qualche decennio, nessuno può ragionevolmente pensare di parlare a tutti allo stesso modo e allo stesso tempo. Non è tanto, e non è solo, una questione di contenuti: una notizia molto importante avrà subito un’eco su tutti i canali. Ma per il resto si creano tante piccole comunità con i propri riti e i propri miti, pubblici affezionati e fedeli, almeno in parte separati dal resto.
Non sono certo che l’evoluzione sia stata contemporanea, dal punto di vista cronologico, ma non credo di sbagliare rilevando che nel pubblico della letteratura la situazione è molto simile. Il numero dei lettori in Italia – qui avevo raccolto qualche numero – è di svariati milioni di persone, ma chiunque abbia provato a parlare di libri con un amico avrà notato che il patrimonio di letture condivise tende a essere sorprendentemente basso. Nella gran parte dei casi ruota intorno a pochi, pochissimi autori, con l’impressione che tali sovrapposizioni siano casuali.
Al di là della cultura scolastica, oggi le letture ritenute obbligatorie o fondamentali sono poche se non nessuna. Non esistono più, come esistevano in passato, riti collettivi come l’uscita di un nuovo libro di uno scrittore famoso o l’assegnazione di un qualche premio: senz’altro qualche nome importante vende qualche copia in più o un riconoscimento ha un’influenza sulle vendite, ma le dimensioni e la rilevanza del fenomeno faranno la gioia di qualche ufficio vendite, al massimo. In breve: come sono scomparsi i mass media, è scomparso anche il canone letterario.
Parlo qui di lettori forti e non spaventati dai libri più impegnativi, curiosi verso il contemporaneo, persino influenzati dalla moda letteraria del momento. Eppure oggi il confronto e lo scambio è molto difficile: mi è capitato spesso di trovarmi a parlare con persone a cui, sulla carta, sarebbero dovute piacere le stesse cose – con cui c’era un’omogeneità anagrafica, culturale, professionale – e che mi nominavano uno dopo l’altro autori e libri a me quasi del tutto sconosciuti.
Tutto ciò è sicuramente figlio dell’enorme quantità di libri pubblicati oggi: ci sono semplicemente troppe cose, troppi generi e troppi autori, per sperare di padroneggiarli tutti, essere aggiornati su tutto. Per non parlare del mondo della saggistica, un tempo rivolto per lo più agli specialisti, oggi pieno di libri di grande successo (basti pensare a Spillover di David Quammen). E quelle che un tempo erano piccole nicchie sono cresciute fino a diventare intere letterature, con i loro appassionati, i loro classici, i loro forum di discussione (la fantascienza, il thriller, lo young adult).
Questa situazione ha almeno una conseguenza notevole: il discorso intorno alla letteratura si è fatto impossibile o quasi (in quel “quasi” c’è anche l’esistenza di questa newsletter). La varietà di nuove uscite da leggere e commentare, da un lato, e la frammentazione del pubblico dall’altro, rendono il dialogo molto difficile al di fuori di una nicchia di appassionati di quell’autore o di quel sottogenere.
È appena uscito, per esempio, il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, probabilmente il più importante scrittore americano vivente: e se sono certo che questa uscita è stata doverosamente commentata sulle pagine culturali dei quotidiani (che tuttavia non frequento, altro segno della frammentazione di cui si diceva) e che io stesso mi sono imbattuto in un paio di recensioni online, ma non ho la sensazione che si tratti di un evento davvero importante. Io stesso, che pure ho letto quasi tutti i suoi romanzi, lo leggerò magari nei prossimi mesi, e magari ne scriverò pure qui, ma mi rendo conto che là fuori succedono troppe cose, ed esistono troppe tribù e sottogruppi nutriti dalla varietà della produzione e dalla quantità dei canali di scambio, per sentirmi parte di un rito collettivo o persino di una minoranza rilevante – per avere, in altri termini, l’urgenza di leggerlo e di parlarne, persino con le tre o quattro persone con cui mi confronto più spesso sulle mie letture.
E dunque, qual è il terreno comune su cui impostare un discorso sui libri? Che senso ha recensire il romanzo che sto leggendo, pur di un autore molto famoso, se la probabilità che sia stato letto da chi mi legge è tutto sommato bassa? Si può ancora parlare di letteratura in generale oggi, senza volersi rinchiudere in una nicchia di iniziati o di tifosi di un solo autore, o sperare di intercettare per puro caso riferimenti, coordinate comuni?
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