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Non è più tempo di movimenti e manifesti, e non accade più quindi che uno scrittore o un gruppo di scrittori dica che cosa vuole fare con la propria arte e come e perché. Chissà quali sono i motivi di questa reticenza e chissà se invece non si tratti di mia ignoranza: magari in realtà da qualche parte c’è un grande fervore di testi programmatici. Se così è, però, quei testi faticano ad arrivare all’attenzione non dico dell’uomo della strada – che forse a quel tipo di cose non è mai stato troppo interessato – ma per lo meno al lettore curioso. L’ultimo esempio italiano a mia memoria è stato il New Italian Epic di Wu Ming, che ha poco più di dieci anni e, bisogna ammettere, è invecchiato assai male.
Anche se mancano le dichiarazioni di intenti, però, ci sono comunque alcune caratteristiche della letteratura italiana di oggi, tratti comuni che si ritrovano in opere anche molto diverse tra loro. E la principale, mi sembra, è la presenza ingombrante – troppo ingombrante – dello scrittore nella pagina. Non parlo soltanto dell’utilizzo della prima persona singolare, che esiste da sempre e che è spesso un espediente per la selezione del punto di vista, della prospettiva da cui raccontare una storia (nessuno pensa, leggendo l’incipit di Moby Dick, che in quel «Chiamatemi Ismaele» sia davvero Melville a parlare); parlo proprio del fatto che, all’uso della prima persona, si accompagni l’inserzione dell’autore, della sua biografia, voce e pensieri tra le pagine di un’opera che si vuole letteraria.
Qualche esempio di ciò a cui mi riferisco, guardando soltanto a libri molto famosi degli ultimi dieci o quindici anni (e di cui spesso ho scritto anche qui): Edoardo Nesi, Storia della mia gente; Roberto Saviano, Gomorra; Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti; Emanuele Trevi, Due vite; Nicola Lagioia, La città dei vivi.
Il punto caratterizzante di tutti questi libri recenti è che l’autore è un personaggio che si muove, parla, pensa, agisce sulla scena; nei casi di Saviano, Trevi e Lagioia non è neppure un personaggio al centro dell’azione, nel senso che la storia che racconta si è svolta o sarebbe andata avanti in buona sostanza anche senza di lui. Semmai, lo scrittore è un osservatore più o meno partecipe, che fa ricerche o interagisce con i personaggi. Ai fini della trama, però, l’autore è un personaggio secondario, qualche volta addirittura una comparsa.
Certo, la presenza dello scrittore nella pagina non è certo cosa nuova. Il passato è pieno di libri di ispirazione autobiografica o memorialistica come, restando al secondo dopoguerra, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, La vita agra di Luciano Bianciardi, i libri di Primo Levi: casi insomma in cui è in un certo senso ovvio che lo scrittore sia al centro della scena, perché la storia da raccontare è la sua storia o quella della sua famiglia, perché l’autore ha deciso che la vicenda interessante e meritevole di una trasposizione letteraria è qualcosa che ha vissuto in prima persona (ovvio, le vicende non devono per forza essere straordinarie: è pieno di libri, da Italo Svevo in giù, che hanno fatto grande letteratura in prima persona raccontando vite del tutto normali).
Poi dev’essere successo qualcosa e, se dovessi avanzare un’ipotesi, direi che è successo qualche decennio fa, intorno agli anni Novanta, con due autori molto importanti e influenti come Aldo Busi e Walter Siti: nel secondo, in particolare, il tema di essere un personaggio dei propri romanzi è assai consapevole e al centro di riflessioni complesse, segno che, almeno ai tempi di Scuola di nudo – il romanzo d’esordio di Siti, del 1994, che a mio modesto avviso è anche il migliore – l’operazione era ancora piuttosto problematica, non banale. Qualcosa stava succedendo: il passaggio dal considerare lo scrittore al centro del suo stesso libro come un’eccezione al farne invece la regola.
Negli ultimi decenni allora è accaduto che lo scrittore entrasse nel libro anche se l’operazione non era del tutto necessaria. Gli scrittori sono spuntati fuori dappertutto, la loro presenza come protagonisti o comprimari si è a poco a poco sdoganata. Con conseguenze interessanti: in primo luogo, la dimensione di invenzione dell’opera letteraria – la creazione di storie, trame, personaggi – viene parecchio indebolita, con i romanzi ad avvicinarsi e spesso a confondersi con le inchieste, i reportage o le autobiografie. Per tutti e cinque i libri che ho citato come esempi principali si può sostenere con buoni argomenti che non si tratti di romanzi e forse neppure di opere letterarie in senso stretto (e sarà pur vero che il romanzo è morto e stramorto almeno trenta volte, ma ottimi romanzi, altrove, si continuano a scrivere).
Ma soprattutto, e qui vengo al punto dolente, in parecchi casi la presenza dell’autore nella tendenza contemporanea è del tutto superflua. Uno degli esempi più lampanti, uscendo per un momento dai nostri confini, è Emmanuel Carrère, caso di straordinario successo – e sospetto anche di notevole influenza sugli autori nostrani – dello scrittore che si mette in mezzo alle cose di cui racconta. Il problema è che diverse volte il lettore vorrebbe che non lo facesse. Leggendo Limonov, ci si chiede perché diavolo l’autore interrompa la narrazione di un personaggio così affascinante come quello che dà il titolo al libro per parlare dei suoi piccoli drammi esistenziali, delle sue vicende personali, del fatto che dovesse tagliarsi i baffi o cambiare lavoro (invento: non a caso, mi sono dimenticato completamente che cosa succedesse nella vita di Carrère durante Limonov). Con tutto il rispetto, che cosa ce ne frega? Quello che stava raccontando prima era molto più interessante.
Forse il motivo è che viviamo in un’età di esibizionismo dell’io, quella dei social network e delle foto dal ristorante: la letteratura coglie lo spirito del tempo e informa anche sui traslochi, sui corsi di yoga, sulle riflessioni al momento dell’aperitivo. Sì, ma perché? L’errore più grave degli scrittori di oggi è credere che tutto quanto pensino o scrivano sia per forza interessante. E così al lettore, novello Diogene, verrebbe da dire in molti casi all’autore: potresti spostarti un momento, per favore? Non si riesce a vedere nulla.
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