Nella scorsa puntata ho parlato di libri che fanno piangere. Benvenuti a tutte le nuove iscritte e i nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di questa newsletter. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Attirato di nuovo da testi criminosi – sarà l’arrivo del freddo, le giornate che si accorciano, chissà – dopo il reportage milanese di cui abbiamo già parlato ho letto La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi, 2020). Il tema è un celebre caso di cronaca nera di qualche anno fa, l’omicidio di Luca Varani da parte di Manuel Foffo e Marco Prato avvenuto a Roma nel marzo 2016, e l’autore è uno dei più famosi scrittori italiani, già premio Strega con La ferocia nel 2015, nonché direttore del Salone del libro di Torino (che per pura coincidenza è cominciato due giorni fa).
Ai tempi, del delitto Varani si parlò molto, tra reportage dalle periferie romane – ne ricordo uno molto bello, su Repubblica, della nostra vecchia conoscenza Walter Siti – e trasmissioni televisive. Ad attirare l’interesse sul caso era soprattutto la violenza furiosa e immotivata degli assassini, due ragazzi che conoscevano appena la vittima e l’avevano attirata nella casa in cui erano chiusi da giorni, persi tra alcol e sostanze.
Il libro, quindi. Ci sono molti motivi per parlarne bene. Lagioia ricostruisce nel dettaglio tutti i personaggi coinvolti in un delitto insensato, facendo parlare loro stessi e chi li ha conosciuti. Esplora un mondo che sfugge agli schemi più facili, alle semplificazioni da titolo di quotidiano, un mondo in cui ragazzi di trent’anni si sentono persi e mostrano tutti i segni di una situazione esistenziale devastata. Come scrive lo stesso autore, non c’è molta invenzione in quello che scrive. La storia è stata ricostruita in base ad atti, interviste, sopralluoghi, una lunga frequentazione con il caso che si è intrecciata anche con la storia personale dell’autore (fedele alla moda carrèriana, anche Lagioia alterna la narrazione della vicenda con la descrizione di come si è occupato della vicenda e di che cosa stava succedendo intanto nella sua vita).
Soprattutto, e qui secondo me sta il suo merito maggiore, La città dei vivi restituisce tanti protagonisti vivi, in grado di vivere anche oltre la pagina. Leggendo mi è capitato di riconoscere in alcuni atteggiamenti, in alcune frasi, in alcune pose, persone che ho incontrato, momenti che ho vissuto. Sono cose che fanno pensare – non tanto “una cosa del genere poteva succedere anche a me”, quanto: capisco come possa essere successo, qual è la china in fondo alla quale si trovano azioni così terribili. Sullo sfondo del disastro Roma, cupa e allo sbando, come la descrivono le cronache di questi mesi e anni, come la descrivono molti romani: la città al suo peggio, resa insomma la scenografia perfetta per un delitto così disperato.
Tutto bene, dunque? Sì e no. La città dei vivi è una lettura quasi obbligata per tutti quanti hanno avuto un interesse anche passeggero per la vicenda e vogliano saperne di più. È ben costruito, con meccanismi efficaci di gestione e risoluzione della tensione narrativa, cosa non facile in una vicenda di cui da un certo punto di vista si sa già tutto.
D’altra parte, però, è anche un libro scritto in una lingua piuttosto piana, senza guizzi, in cui si fa fatica a riconoscere uno stile. L’autore, a dirla tutta, non sembra averne uno. La letterarietà, nel senso dell’espressione non strettamente dedicata a veicolare un fatto, un avvenimento, è confinata a poche notazioni di contorno o a qualche descrizione (a tratti un po’ goffe o trite).
Ma soprattutto è confinata a quello che chiamerei “il momento riflessivo”, in cui il narratore trova necessario – specie nella seconda parte – fermarsi un momento e mettere sulla pagina un distillato riflessivo, diciamo così, della vicenda che ha seguito, inserzioni dal sapore saggistico sulla natura umana, sui delitti, sulla società. In questi passi si concentrano il lessico astratto e i ragionamenti “difficili”, perché giocati magari sul registro del dubbio e della contraddizione.
Sono i momenti in cui si sente come il bisogno dello scrittore di “dire qualcosa di profondo”, mostrare la sua capacità di teorizzazione, di astrazione, di generalizzazione. Ma, per chi ha letto o leggerà il libro, invito a confrontare quanto risulta più efficace, per commentare la vicenda, le poche pagine di ricordo autobiografico della gioventù dell’autore, rispetto alle tante riflessioni sulla colpa e la responsabilità, sugli abissi dell’animo umano e sulla fuga da sé stessi.
La scorsa settimana si parlava di kitsch, in particolare per l’esibizione o la sollecitazione svenevole dei sentimenti. Mi pare che i “momenti riflessivi” siano invece la spia del contemporaneo gusto middlebrow – da un famoso saggio di Dwight Macdonald, Masscult and Midcult – ovvero la tendenza ad apprezzare opere semplici nella fruizione ma con una patina di “letterarietà” che le fa sentire come “di valore”.
Va bene così, naturalmente: non è che si possa leggere solo Proust e Dostoevskij, e La città dei vivi è un bel libro sotto tanti aspetti. Avrei soltanto tagliato i momenti in cui il suo autore si impegna a fare lo scrittore. I fatti raccontati parlano già da sé, tutto il resto non serve.
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