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La prima cosa che colpisce di Due vite di Emanuele Trevi – che la scorsa settimana ha vinto il Premio Strega, molto probabilmente il più famoso premio letterario italiano – è che non si tratta di un’opera di narrativa in senso stretto. Due vite appartiene piuttosto al genere biografico o memorialistico: al centro ci sono i rapporti di amicizia dell’autore con due scrittori, Rocco Carbone e Pia Pera, in una sorta di studio delle loro personalità, delle loro vicende terrene e letterarie.
Negli ultimi decenni la letteratura italiana ha avuto una spinta verso l’autobiografismo piuttosto forte e il tema del rapporto tra l’autore e i personaggi della sua opera, tra quanto si vive e quanto si scrive, è diventato centrale. Gli scrittori italiani contemporanei mettono volentieri loro stessi sotto la lente d’ingrandimento, spesso sono direttamente i protagonisti delle storie che raccontano. Due tra i più importanti autori degli ultimi trent’anni, Walter Siti e Aldo Busi, ne sono ottimi esempi.
D’altra parte non è una tendenza solo italiana e quel tipo di scrittura ha spesso un grande successo di pubblico. Emmanuel Carrère ha costruito una carriera con i suoi collage di biografia e autobiografia. Jonathan Safran Foer ha scritto alcuni libri famosi – come Se niente importa, sul consumo della carne – che non sono né solo saggio né solo romanzo. In breve, è in atto una tendenza globale che abbandona l’idea classica di opera narrativa, cioè il racconto di vicende frutto dell’invenzione, per avvicinarsi all’autobiografia o alla saggistica.
Naturalmente tutta la letteratura è in qualche modo autobiografica, ma ecco, vedo un tratto comune in tutti quei libri in cui il protagonista si chiama come l’autore e di professione fa lo scrittore e magari sta attraversando una crisi di mezza età. Oppure, l’altro lato della stessa medaglia, al centro della trama c’è un personaggio storico di cui si ricostruiscono le vicende e i sentimenti. Anche a scorrere la lista dei vincitori dello Strega degli ultimi anni si può vedere che le due tipologie, prese insieme, costituiscono il genere più comune.
A dirla tutta, non è una tendenza che mi faccia impazzire, perché, forse troppo retrogrado e conservatore, trovo più interessanti e piacevoli storie in cui il vincolo della realtà non sia troppo pressante. Se volessi conoscere la storia di Napoleone leggerei una sua biografia; ma soprattutto, pensieri e vicende di uno scrittore italiano non mi sembrano di per sé particolarmente interessanti. E ricostruire che cosa pensasse e provasse Napoleone mi sembra un esercizio di stile, la scelta di una strada possibile che ha purtroppo scarsa possibilità di aderire al vero. La realtà, se davvero si vuole parlare del Napoleone personaggio storico, sarà sempre più ricca, più varia, in definitiva sfuggente e indefinibile di tutte le sue descrizioni.
Quando invece il protagonista è lo scrittore – nonostante molti degli autori che ho citato finora mi siano piaciuti, e abbiano scritto a volte libri assolutamente degni di nota – il rischio è sempre quello di raccontare, magari anche molto bene, una storia non troppo coinvolgente. Dopotutto, che cosa mi interessa di quello che passa per la testa di uno scrittore di mezza età?
È un po’ il limite che ho trovato in Due vite: l’autore conosceva i protagonisti di cui parla e con ogni evidenza voleva loro bene. Come tutte, le loro vicende personali, viste dall’esterno, sono misteriose e affascinanti. Eppure, arrivato in fondo – e con tutto il rispetto per le loro vicende drammatiche – il libro non è riuscito a convincermi che dovessi per forza conoscerli così bene anche io. Il problema di parlare di persone vicine, usando i loro nomi, è che bisogna procedere con il freno tirato. Non si potrà mai essere onesti fino in fondo: perché insultare la memoria di un amico, che sarà stato a tratti stupido e crudele come tutti, ma era pur sempre un amico? Non si riuscirà ad eliminare un pudore e un desiderio di nobilitazione che fermerà la penna.
Due vite non è affatto un brutto libro. È parecchio breve, certo – appena centoventi pagine – e si ha questa impressione che qualcosa di troppo sia rimasto fuori. Ma Trevi scrive molto bene, con una scrittura piana, pulita, e ogni tanto si lascia andare ad un certo tono sentenzioso che secondo me regala i momenti migliori. Ne scelgo uno: «ogni perdita d’innocenza aumenta in noi il senso desolante dell’estraneità di quel mondo che l’anima si ostina a scambiare per la propria casa» (p. 73).
Ben detto: tuttavia, come direbbero gli esperti di sceneggiatura, show, don’t tell, e le verità che riesce a mettere a fuoco la letteratura hanno una forza ancora maggiore quando non sono presentate come massime di saggezza, bensì quando sono inserite in una vicenda, una storia, un personaggio. Resta più impresso un gesto di un personaggio di finzione di tante riflessioni sulla vita sparse tra le pagine di un libro che parla d’altro.
Insomma, l’ho letto volentieri, e mentre l’ho fatto non mi sono annoiato – anche se, se fosse stato lungo il doppio, chissà. Trevi è un bravo scrittore e nei suoi protagonisti deve aver trovato vera ispirazione. Ma a distanza di tre giorni Due vite si è già molto scolorito: un libro onesto e sincero, ma forse non così necessario.
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