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Questa settimana ho letto il libro di Edoardo Nesi Storia della mia gente, un reportage autobiografico vincitore del Premio Strega qualche anno fa. L’autore è uno scrittore, ma anche un esponente della generazione più giovane di una famiglia di imprenditori tessili di Prato. Nel libro racconta la fine della sua esperienza imprenditoriale, che si intreccia anche con la drammatica crisi del distretto industriale locale e l’arrivo della concorrenza straniera – non tanto e non solo i famosi “cinesi di Prato”, ma soprattutto l’urto della globalizzazione e delle dinamiche di larghissima portata che hanno avuto effetti devastanti in una realtà produttiva come quella pratese.
Diverse pagine mi hanno colpito per la rabbia e l’indignazione che le dominano, tanto che qualche volta assomigliano più al testo di un manifesto o di un comizio – ad un certo punto viene trascritta anche la risposta sarcastica, mai inviata, dell’autore a uno dei pensosi editorialisti di un grande quotidiano nazionale. Nesi individua peraltro un colpevole evidente: la classe politica cieca e incapace, le cui scelte incoscienti hanno lasciato andare verso il disastro la sua gente, con l’apertura alla concorrenza e al libero mercato senza correttivi e senza mediazioni, improntata a uno stolido ottimismo che sa di stupidità o di leggerezza.
Il libro di Nesi, che ad un certo punto si dichiara di passaggio «un conservatore», anche se non insiste troppo sulla sua appartenenza politica, è una lettura per tanti aspetti illuminante di quanto è successo ai tanti lasciati indietro o travolti dalla globalizzazione, fenomeno ormai trentennale su cui l’elaborazione collettiva è ancora assai indietro. La sua lettura mi ha fatto pensare agli ahimè numerosi libri che potremmo definire della “biblioteca del declino”, di cui finora avevo incontrato esempi soprattutto nella saggistica.
C’è infatti un’ampia bibliografia sul declino italiano: la storia dell’economia nostrana che scrisse qualche anno fa l’economista Emanuele Felice, poi diventato per qualche anno responsabile economico del Partito democratico, dal titolo non troppo rassicurante Ascesa e declino (lo recensii qui). Un altro titolo della serie, che risale a tempi che sembrano remoti – cioè al 2003, ben prima dell’ultima crisi economica – è poi il saggio di Luciano Gallino sulla scomparsa dell’Italia industriale. E certo ce ne sono molti altri che mi sono sfuggiti.
Titoli che compongono la mia personale biblioteca del declino, che si è andata formando a poco a poco, e in larga parte senza che me l’andassi a cercare. È un dato acquisito che il nostro paese attraversi una fase pluridecennale di stagnazione, che i tempi della crescita sostenuta siano ormai un lontano ricordo, e che i suoi problemi economici e sociali siano ormai tanto incancreniti da sembrare un sordo Leitmotiv per editorialisti bolsi e opinionisti amanti dei luoghi comuni. Ciò è stato analizzato, d’altra parte, in testi di grande lucidità e in analisi di valore, come quelle di Felice e di Gallino.
Ma qui mi nasce l’incertezza di questa settimana. Mi pare infatti che la narrativa italiana – con l’eccezione appunto di Storia della mia gente – non rifletta quasi per nulla questo periodo storico di travaglio ormai assodato in decenni di numeri e studi degli specialisti. Oppure, se lo fa – giacché non voglio certo pensare di conoscere tutto quanto si scrive e si pubblica oggi in Italia – non ottiene risultati straordinari, da classifica o comunque di rilievo. Emerge semmai in pochi momenti, qua e là, come per caso: dietro La città dei vivi di Nicola Lagioia, ad esempio, c’è anche il tema del declino di Roma, ma la riflessione è concentrata sulla capitale, città che per tanti versi fa storia a sé e che segue una sua propria traiettoria storica e politica.
Mi chiedo allora perché, a differenza di tante epoche del secolo scorso, in cui il periodo di crisi e di disagio è diventato uno dei motori principali, se non il principale, della produzione artistica, la letteratura del nostro paese non sembri occuparsi molto del declino che è sotto gli occhi di tutti e che, quasi ogni giorno, viene confermato dall’ennesima statistica o lancio di agenzia sui salari che stagnano, l’emigrazione di massa dei laureati delle università italiane, quella non meno inquietante di chi non trova un lavoro qualsiasi, il divario crescente con i nostri vicini dell’Europa del Nord, la natalità ai minimi storici, la crescita economica che, caso quasi unico al mondo, è inchiodata da vent’anni.
A guardare le classifiche di vendita dei libri, i vincitori dei premi, ma anche i casi letterari degli ultimi anni, l’osservatore spassionato potrebbe pensare che l’Italia stia attraversando un periodo di spensierato benessere, o almeno di ragionevole soddisfazione collettiva, tanto da potersi dedicare ai casi di cronaca nera, alle storie di amicizia tra intellettuali, alle vicende storiche. Non mi pare che da noi si sia visto qualcosa come Sottomissione di Michel Houellebecq o Hillbilly Elegy di J.D. Vance o Poverty Safari di Darren McGarvey, solo per citare tre libri potenti usciti rispettivamente in Francia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito – libri che hanno suscitato grandi dibattiti e notevoli riflessioni collettive, tanto da valicare i confini e diventare bestseller internazionali.
L’Italia, paese estremo per tanti punti di vista, e luogo dove le storture del nostro tempo si presentano in forma eccessiva e parossistica, non ha prodotto granché in questo campo. E mi chiedo: perché? Delle due l’una: o in effetti la situazione non è così grave come sembra a tutti quanti, e gli scrittori sono gli unici a capire che in realtà non c’è un gran motivo di lasciarsi andare alla malinconia; oppure il legame tra la narrativa e l’analisi della realtà si è reciso o affievolito così tanto da non accorgersi dei cambiamenti che ci stanno intorno, da non rifletterli più nelle pagine, nelle storie, nei romanzi.
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