Nella scorsa puntata ho parlato contro la scrittura. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di questa newsletter. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Pochi giorni fa, durante una chiacchierata con il mio amico Dario, è venuta fuori per caso una questione che tenevo da tempo in un angolo della mente e che fino ad allora avevo valutato soltanto un’idiosincrasia personale, un difetto dovuto a mancanza di pazienza o di attenzione, una stranezza di poca importanza. Vedendo però che il problema è suonato almeno in parte familiare o per lo meno rilevante anche per Dario, gran lettore, mi sono detto che forse non si trattava soltanto di una mia fisima.
Per esporre il problema userò una forma assertiva e senza sfumature, ma già il titolo di questa newsletter dovrebbe indicare che ho poche sicurezze, in generale. Ad ogni modo, ecco la questione: le descrizioni degli spazi fisici in letteratura hanno limiti strutturali insormontabili. Detta ancor più seccamente, non funzionano.
Nella mia carriera di lettore ho sempre affrontato le descrizioni spaziali – aggettivo che uso per distinguerle da quelle di gesti o persone – con una certa difficoltà. Mi pare, per prima cosa, che in quei brani si richieda un cambio di passo nella velocità e nella stessa modalità della lettura. Arrivati ad una descrizione, si è portati a rallentare, quasi a scandire le parole. Per cercare di visualizzare quanto descritto è necessario infatti sforzarsi di associare ad ogni parola una chiara immagine mentale, con un livello di distinzione e di precisione assai più alto dell’usuale indeterminatezza suscitata dalla lettura dei testi.
Se però fosse soltanto una questione di alterazione del ritmo della lettura, non sarebbe in fondo gran cosa. Il fatto, piuttosto, è che le descrizioni geografiche non riescono mai a essere sufficientemente precise, nel senso che non riescono a restituire e a fissare con chiarezza un’immagine mentale univoca nel lettore – come farebbe in un istante un quadro o una fotografia.
Un esempio: il celebre racconto della battaglia di Waterloo nella Certosa di Parma di Stendhal. Il protagonista Fabrizio del Dongo si ritrova in una delle più celebri battaglie della storia, ma tutto quanto riesce a vedere sono movimenti confusi e rumori, brandelli dell’evento intorno a sé che non solo non restituiscono per nulla la grandiosità del fatto ma non riescono neppure a dare un’idea coerente di che cosa stia succedendo. Ricordo bene che, leggendo quelle pagine, partecipavo allo spaesamento di Fabrizio, com’era senz’altro nelle intenzioni di Stendhal, ma allo stesso tempo non riuscivo a farmi un’idea di dove si stesse muovendo il protagonista: c’erano filari di alberi, campi, spazi aperti: ma dove esattamente, e quanto ampi? Ed erano a destra o a sinistra? Quali erano le distanze, le proporzioni?
Oppure ancora: una delle cose che ho trovato più snervanti nella mia rilettura di Tolkien è stata che, nonostante siano destinate tante parole alla descrizione della geografia della Terra di mezzo e una parte molto ampia del libro sia dedicata proprio a un viaggio in cui sono descritti con minuzia di particolari l’orografia del territorio, i fiumi e le città, riuscivo a farmi un’idea passabile dello spazio fisico soltanto quando avevo qualche appiglio nella versione cinematografica, mentre mi ritrovavo spesso confuso quando ero lasciato a me stesso. La compagnia dell’Anello scendeva verso destra quando io avevo capito che il pendio declinasse a sinistra, le valli si aprivano quando pensavo stessero per finire; il mondo che Tolkien con tanta evidenza aveva bene in testa, insomma, non riusciva a ricrearsi sulla carta, a trasmettersi al lettore con la stessa nitidezza di chi lo aveva pensato.
Non credo sia un problema della capacità degli autori. Ho fatto esperienza della stessa frustrazione per troppi libri perché si tratti di un caso. Credo piuttosto che sia un limite intrinseco della descrizione letteraria di spazi fisici. Ho diverse ipotesi, tutte assai incerte, sulle ragioni di questo limite.
La prima è di ordine storico. Forse la difficoltà ha a che fare con il rapido cambiamento dello spazio intorno a noi e delle parole che usiamo per descriverlo: se scrivo “il parcheggio di un centro commerciale” oggi, sto facendo riferimento a qualcosa che non esisteva cinquant’anni fa e assai probabilmente sarà molto diverso, se ancora esisterà, tra cinquant’anni; così come se Tolstoj scrive di “un palazzo signorile” in Anna Karenina fa riferimento a qualcosa di cui oggi possiamo avere solo una vaga idea – dell’organizzazione degli spazi e della loro ampiezza, di come vi si accede e vi si vive all’interno, di come quello spazio interagisce con la strada e i luoghi circostanti – a meno di non essere, forse, storici dell’architettura. Persino “la campagna”, “i campi coltivati” devono essere cose assai distanti oggi da quello che le stesse espressioni descrivevano in un romanzo di due secoli fa. L’esperienza del mondo passato, e dunque la sua visualizzazione, è per noi del tutto inaccessibile.
Non penso però che sia soltanto una questione di distanza temporale. Un motivo più profondo potrebbe stare negli stessi limiti del linguaggio. Prendiamo la descrizione più celebre della letteratura italiana, quella che apre il primo capitolo dei Promessi sposi:
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte…
Già qui ci sono diverse cose problematiche, per chi volesse provare a visualizzare la scena. Che cosa si intende esattamente con catene non interrotte di monti? Esistono al contrario catene interrotte? Ma allora non dovrebbero chiamarsi catene, verrebbe da dire. Oppure Manzoni sta cercando di trasmettere un’altra caratteristica di quelle montagne, come ad esempio il fatto che siano particolarmente fitte? Ma se così fosse, quanto vicine le dobbiamo immaginare? E seni e golfi descrivono due conformazioni del territorio diverse, nelle intenzioni dell’autore, oppure si tratta soltanto di una dittologia sinonimica? E quell’a destra, a quale lato si riferisce di preciso? A seconda che si guardi verso il lago o verso il fiume, indica due parti opposte. E che cos’è poi un’ampia costiera, visto che con il termine si può descrivere in pratica qualsiasi tratto di costa non pianeggiante, anche esteso per parecchi chilometri? Tralasciamo poi il fatto che il lago di Como ha due rami meridionali, l’uno che si sviluppa verso sudest e l’altro verso sudovest, e dunque anche il ramo che volge a mezzogiorno sarebbe difficile da individuare sulla cartina se non fosse per la successiva menzione dell’Adda.
Insomma, a voler essere sinceri, si capisce poco. O meglio, si capisce poco nel dettaglio, perché in generale è chiaro che stiamo parlando di un lago piuttosto stretto circondato dalle montagne. La colpa di questa scarsa precisione non è certo della prosa di Manzoni di per sé, che qui ha le straordinarie caratteristiche di ritmo e musicalità di sempre, l’usuale capacità di creare periodi avvolgenti e perfettamente compiuti.
Piuttosto, credo che il limite stia in una delle caratteristiche fondamentali della letteratura. La letteratura è un sistema a sé, chiuso e regolato dalle sue proprie norme, non diversamente dalla musica o dalla matematica. È possibile trovare qualche riscontro con la realtà fuori da essa, ma esso può essere soltanto vago e impreciso. Non è possibile una descrizione esaustiva ed esatta di alcun oggetto della vita reale perché la parola scritta opera su un altro piano, a distanza.
Questo è anche il motivo per cui un certo grado di indeterminatezza, nella scrittura, deve essere dato per scontato: ogni tentativo di chiudere quel divario è destinato a mostrare la fondamentale incapacità della parola di fornire un riscontro esatto dell’esistente. Ogni oggetto reale, se dovesse essere descritto in modo esaustivo, richiederebbe un numero infinito di parole e il tentativo sarebbe comunque destinato a fallire. Davanti a me ora ho una pianta, un banale ficus: quanti volumi ci vorrebbero a descriverne ogni sua foglia? E comunque non sarebbero in grado di fare quello che un disegno comunicherebbe in un istante.
Forse la parola letteraria può quindi soltanto suggerire, lasciare all’intuizione, accettare che ogni lettore si crei il proprio mondo nella testa. Le descrizioni provano ad andare contro questa indeterminatezza, ad essere univoche, a imporre, in qualche modo, un limite all’immaginazione. Tentativi destinati, tutti, al fallimento.
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