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Il lettore accanito proverà di tanto in tanto la tentazione di scrivere. Si tratta di un desiderio da cui è opportuno cercare di guarire il più presto possibile. Nei momenti di stanca sul lavoro potrà venire in mente, al lettore esperto, di buttar giù un breve racconto; in fasi più liriche, magari osservando un personaggio dall’aria un po’ particolare nel traffico, o in metropolitana, potrà venirgli l’ispirazione per mettersi alla prova in qualche verso; prima di andare a dormire, spente ormai le luci e rimasti soli con i propri pensieri, ripasserà tra sé e sé i piani per il magnum opus, il ponderoso romanzo che garantirà la fama.
Si tratta di un disturbo comune e proprio per questo assai pericoloso. Sono pensieri che causano infatti numerosi danni al proprio benessere, alla vita sociale e, certo non meno importante, all’ambiente.
Per prima cosa, il lettore accanito ma velleitario scrittore sottrarrà prezioso tempo all’attività per cui è veramente vocato, che è quella di leggere: e solo l’ingenuo penserà che essa sia arte meno nobile e difficile da padroneggiare dello scrivere. Saper leggere sta al saper scrivere come il mestiere della stilista sta a quello della modella: l’una produce quanto l’altra usa, ma per il resto si tratta di cose completamente diverse. Si possono fare tutte le attività più o meno bene, osservazione banale che però, per qualche curioso motivo, l’opinione comune applica a tutte le attività umane tranne che alla lettura.
Bravi lettori si diventa, nonostante si tratti di una competenza del tutto misconosciuta, se non addirittura negata. Forse per una spericolata analogia con il processo democratico ci si illude che, come nell’urna, anche quando si parla di libri i giudizi siano del tutto equivalenti; punto di vista bizzarro e senz’altro da condannare.
Qualche lasalunga, qualche sotuttoio dirà con aria furbetta che i libri che vendono sono belli per forza e che comunque non c’è altro modo per valutare il valore di un’opera letteraria al di là del numero delle copie vendute. La quantità insomma è l’unica misura del valore: che strano punto di vista. Così pensando, dovremmo donarci ai matrimoni e ai battesimi il sale grosso e l’acqua minerale. Se sono così diffusi dovranno bene essere qualcosa di straordinario!
Il lettore che, con fatica ed esercizio, ha imparato a padroneggiare l’arte di distinguere i libri che valgono qualcosa dovrebbe esserne fiero e farne anzi un’apposita riga del curriculum vitæ, insieme alla laurea e al certificato di inglese: è abilità rara, che dovrebbe essere valorizzata da tutti i datori di lavoro illuminati. Il lettore esperto non si senta per nulla da meno di chi ha all’attivo qualche volume. È questo senso di inferiorità, crediamo, che causa sofferenza a chi legge e lo porta, sotto l’impulso delle spinte sociali, alla cattiva strada dello scrivere.
Ma un’altra perniciosa teoria causa infiniti danni ai bravi lettori: l’illusione che essi sappiano naturalmente, conseguentemente scrivere. L’idea che aver letto molti libri sia un apprendistato implicito per l’arte della scrittura è come pensare che si possa diventare grandi chitarristi a forza di ascoltare musica nelle cuffiette. Si può essere in grado di fischiettare l’integrale di Frank Zappa e non avere idea di che cosa sia la corda del mi e, ahimè, l’allenamento a cui si sottopone l’orecchio non si trasferisce in alcun modo alle dita.
Chi scrive si deve sottoporre a lungo e faticoso apprendistato, ad ore e ore di tentativi, cancellature, revisioni e correzioni delle bozze, e ciò rende evidente l’ulteriore danno personale che arreca al lettore la velleità scrittoria: essa gli sottrae tempo dalla sua vera vocazione. Non è neppure il caso di ricordare che il numero di libri che si possono leggere è ridicolmente finito, così come il nostro tempo su questa terra. Basti pensare a quanto tempo ha perso Marcel Proust per scrivere i suoi tomi e quanto avrebbe potuto leggere nel frattempo: è chiaro che la sua scelta è stata particolarmente infelice e non dev’essere un caso che da sempre lo accompagni la fama di persona problematica. Pazzo chi vuol fare la sua fine!
Ma veniamo ai danni sociali. La nostra società, con ogni evidenza, non ha alcun bisogno di nuovi libri. Una volta, forse: quando ancora il mondo era arretrato e l’ozio era la condizione di tanti, ci si poteva permettere lo svago dispendioso e debosciato della scrittura, e anzi tutti i ragazzotti appena appena ambiziosi facevano un punto d’onore nell’aver composto almeno una tragedia o una raccolta di epigrammi prima di entrare nell’età adulta. Oggi i tempi sono cambiati, per fortuna. Quale genitore desidererebbe per i propri figli una carriera letteraria? Che poi non è neppure una carriera. Chi scrive libri generalmente non guadagna e produce assai poco, due, forse tre pagine al giorno. Qual è l’effetto sul Pil di tre pagine? Un effetto ridicolo e, ci pare, un obbiettivo francamente irresponsabile in tempi di difficoltà per il Paese. Avremo mica richiamato Draghi dall’Olimpo dei governatori delle banche centrali per usare le nostre energie a mettere in fila le parole sui nostri schermi.
Oggi, giustamente, si bada al sodo. Se si ha qualche volontà di riuscire, non è certo con il proprio nome sopra mezzo chilo di carta che si andrà da qualche parte. E men che meno dedicandosi a studi letterari. La strada maestra, a cui tutta la gioventù andrebbe instradata – e in parte infatti lo si fa, grazie ad alcuni dei nostri uomini pubblici più illuminati – è la laurea in economia, o in materia affine, e poi via sùbito a Londra a fondare una startup. Tutto il resto, si pensa correttamente, è inconsistenza, sogni di gloria, immaturità improduttiva. Se si paragona tutto il bene che hanno fatto al mondo le novità tecnologiche, raccogliendo per lo più cifre satrapesche da investitori illuminati nel frattempo, e si mette sull’altro piatto della bilancia l’impalpabile beneficio che hanno dato al mondo persino i più grandi scrittori, il paragone, lo vedrebbe anche un cieco, è impietoso.
Scrivere, lo abbiamo appena accennato ma è bene sottolinearlo, fa male anche all’economia. Ricordiamo con una punta di dolore un amico che se ne stava tutta la sera a lavorare al grande romanzo italiano e che declinava furiosamente ogni invito a togliersi dalla scrivania per andare a bersi qualcosa. Ecco, chiediamoci, che cosa sarebbe delle attività economiche se tutti facessero così? I ristoranti chiuderebbero, i bar fallirebbero, per non parlare di discoteche o tassisti, insomma di tutte le professioni che dipendono dal fatto che le persone responsabili passano le loro sere a spendere soldi e a tenere in piedi il poco tessuto economico che ancora ci ritroviamo. Per lo meno il lettore compra qualcosa, ma lo scrittore che cosa compra? Penne e risme di carta, prodotti peraltro ad assai basso valore aggiunto, e soltanto se è uno stravagante nostalgico che non si accontenta del caro vecchio Word.
Le magagne provocate dalla scrittura alla nostra società, a rifletterci bene, sono così tante che andrebbe messa fuorilegge, o per lo meno severamente limitata. Magari a pochi ambienti controllati, in cui psicologi e operatori sociali possano seguire chi ne è affetto accompagnandolo in percorsi di recupero, come le stanze del buco a Zurigo. Fa propendere per la messa al bando, inoltre, la considerazione del danno che la scrittura arreca all’ambiente.
Non ci riferiamo qui al processo di produzione dei libri. Non ci si fermi infatti a considerare soltanto il pensiero più ovvio, che porta a sbagliare bersaglio. È scontato che nuovi libri richiedano nuova carta e dolori alle foreste, e alla composizione della nostra atmosfera, e alle calotte artiche al livello del mare ai pinguini. Ma anche i lettori comprano libri, e se non ci fossero libri nuovi si limiterebbero a comprare le ristampe di quelli vecchi.
No, il danno ambientale risiede nelle lunghe ore di veglia a cui l’aspirante scrittore si deve sottoporre se vuole arrivare in fondo al suo inutile romanzo, dato che, come abbiamo già ricordato, con la scrittura non si guadagna un ghello e dunque si presume che almeno durante il giorno il poveretto faccia un lavoro vero, di quelli che la nostra società rende disponibili a chi abbia almeno un minimo di buona volontà e voglia di lavorare, di mettersi in gioco. Pensate – orrore! – a città con tutti i lumi da tavolo accesi, fino alle due o alle tre del mattino, e agli inquietanti livelli dei consumi elettrici che le si accompagnerebbero. Davvero possiamo permettercelo? Mentre l’aspirante velleitario se ne sta sveglio a far fatica inutilmente, e a danneggiare, in un colpo solo, sé stesso, gli altri e il mondo intero, il saggio lettore, portato in lidi lontani dalle pagine (quelle sì, di valore) che ha sfogliato poco prima, placido se la dorme, in pace con la propria coscienza e con tutti.
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Una bellissima ed amara analisi del complicato rapporto tra "lettura" e "scrittura" - se non della stessa condizione di chi la scrittura l'ha scelta come mestiere.