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Quando andavo all’università mi capitava di sentire un compagno di studi che, parlando di qualche celebre autore o di qualche saggio famoso faceva sempre attenzione a dire che non lo stava leggendo, ma rileggendo. Come se ci fosse da vergognarsi nell’ammettere che, a ventuno o ventidue anni, non si aveva già letto tutto Kafka.
Nella mia esperienza la lista delle cose che mi piacerebbe leggere è così lunga che i libri letti due (o più) volte sono tutto sommato pochi o comunque un’esigua minoranza. Rileggo ogni tanto alcuni dei miei autori preferiti, ma poco altro. E nelle mie esperienze di rilettura mi sono trovato davanti a un fenomeno piuttosto curioso.
La prendo alla lontana. Da bambino lessi avidamente tutti i romanzi di Emilio Salgari del ciclo dei pirati della Malesia: o meglio dei cicli, visto che sono due, per un totale di undici libri. Andavo matto per quei libri. Ricordo molto bene la loro forza quasi magica di catapultarmi in un altro luogo, in un altro tempo, quelle emozioni potentissime che penso si abbiano solo nella lettura da sbarbatello.
Diversi anni dopo averli amati così tanto, mi pare verso la fine delle superiori, i cicli di Sandokan mi tornarono tra le mani. Di quel secondo tentativo non ricordo molto, se non che fu molto breve e che lo interruppi con una sensazione di leggero imbarazzo. E di aver combattuto con me stesso prima di ammettere con chiarezza la dolorosa evidenza che si trattasse di vera robaccia.
Non ho ripetuto l’esperimento con Salgari di recente, ma ho avuto una sensazione di simile delusione – anche se non così estrema – quando qualche settimana fa ho riletto Il Signore degli Anelli, che era stato un passaggio obbligato da ragazzo (ci fu un momento in cui sembrava che tutti i miei coetanei stessero leggendo il Signore degli Anelli e che fosse urgente farlo: strano, perché ho controllato le date e i film erano ancora piuttosto di là da venire).
Mi sono avventurato nella rilettura di Tolkien per rispondere a una domanda ben precisa che mi girava in testa da qualche tempo. Mi chiedevo, perché Tolkien non è considerato un gigante tra gli scrittori del secolo scorso? Alla mia prima lettura da ragazzo mi era sembrato un libro bellissimo, importante. È cambiato il mio gusto, oppure c’è qualche motivo – che so, politico: Tolkien è notoriamente patrimonio della destra – per cui gli viene negato un posto tra gli scrittori che, almeno a mia memoria, si meritava?
La verità è che, affrontato da adulto, il librone di Tolkien mi è sembrato avere diversi limiti e anche piuttosto evidenti. Non ne faccio qui una recensione dettagliata. Ma rileggendolo mi ha colpito ad esempio la puntigliosità del tutto superflua nel descrivere nei minimi particolari lo spazio fisico attraversato dai personaggi, come se lo sforzo di immaginazione dell’autore – per tanti aspetti, sinceramente impressionante – si fosse tradotto nella volontà di trasmettere al lettore ogni particolare orografico, da che parte era rivolta ogni singola valle e quanto era ripido ogni pendio.
In breve, ho faticato ad arrivare in fondo. La risposta alla mia domanda iniziale era che Tolkien non si meritava un posto nel canone dei grandi autori del Novecento perché, molto semplicemente, non se lo merita (pensare che esista un “canone” farà storcere il naso a qualcuno, ma ne riparleremo). Il suo libro ha diversi aspetti affascinanti e qualche bella pagina, ma per me è risultato per lunghi tratti indigeribile.
Questa esperienza mi ha aiutato a chiarire un aspetto fondamentale della lettura, e cioè che la formazione di un’impressione su un libro dipende in modo decisivo dal momento e dall’ambiente in cui lo si legge. Lo chiamerò “effetto Tolkien”. La situazione contingente del lettore – età, periodo della vita, stato d’animo, origine del suggerimento, perfino luogo d’acquisto o spazi a disposizione o circostanza in cui si inizia la lettura – è una parte importante del giudizio positivo o negativo su quanto si legge. Giudizio peraltro spesso definitivo (visto che il nostro tempo è finito e quanto possiamo leggere è limitato, la maggior parte delle pagine su cui posiamo gli occhi le leggeremo una volta sola).
Alcune delle conseguenze di questo fenomeno sono banali, come il fatto che resteremo sempre emotivamente legati ad alcuni autori della scoperta della lettura. Altre lo sono meno: e cioè la fondamentale incertezza delle nostre opinioni, visto il potere di una seconda lettura che in molti casi potrebbe farcele cambiare radicalmente. Una seconda lettura a distanza di anni dà davvero molte certezze in più. Borges è stato uno dei miei autori preferiti per parecchi anni: poi, a rileggerlo a distanza, ho notato alcune leziosità, ho capito alcuni meccanismi, ho visto alcuni limiti, e ho capito – pur continuando ad apprezzarlo moltissimo – perché alcuni lettori anche avveduti non lo sopportino.
L’effetto Tolkien, dicevamo, insegna che non possiamo fidarci troppo di molti nostri giudizi critici. Naturalmente questo scetticismo non equivale a un liberi tutti, un todos caballeros che salva qualsiasi schifezza in nome di un giudizio più tardo. Un sacco di brutti libri restano brutti letti ieri, oggi e domani, e per molti non ci sarà bisogno di ritornarci.
Ma molte delle nostre opinioni di lettori arrivano con un asterisco. È quasi certo che non troverei più altrettanto affascinanti i gialli della serie “Cento pagine mille lire” che divorai nell’estate della seconda o terza superiore. Che cosa dire però di tanti autori su cui ho opinioni tanto nette, eppure non li frequento da dieci o quindici anni? L’effetto Tolkien è in agguato.
Foto di Douglas Bagg su Unsplash
C'è da sottolineare, però, che stile e scorrevolezza del testo sono anche altamente influenzate dal costume di lettura dell'epoca e della velocità della vita. Oggi, se un testo (ma anche un film, una canzone, ecc.) non va quasi subito o addirittura subito al "dunque", è considerato lento e pesante. Questo suppongo derivi dalla velocità a cui il nostro cervello è abituato a ricevere nuovi stimoli grazie a cellulari e internet. Quando p.e. Dumas scrisse "Il Conte Di Montecristo" la gente leggeva ed assorbiva informazioni a velocità ben diversa, ragion per cui all'epoca quello fu considerato un libro di grande avventura ed azione, anche se pure Dumas si lancia ogni tanto in digressioni sui costumi del carnevale romano o sulle abitudini dei prigionieri della fortezza di Monte Cristo... Penso che anche Tolkien indulgesse in approfondimenti "orografici" perché era più comune per l'epoca. Si potevano scrivere libri più agevolmente senza preoccuparsi di perdere facilmente l'attenzione del lettore.