Le memorie selettive
I romanzi contemporanei non mi piacciono, ma c’è davvero da rimpiangere il passato?
Nella scorsa puntata ho parlato di M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Il mio amico Stefano mi ha suggerito qualche tempo fa l’ultimo libro di uno scrittore italiano piuttosto famoso. Stefano, io lo so che tu me lo hai prestato con le migliori intenzioni: ma io dopo trenta pagine volevo già lanciarlo dalla finestra e dopo cinquanta fantasticavo di roghi. Non è colpa tua. In questa uscita avrei voluto, per vendicarmi con l’autore del nervosismo che mi aveva causato, cedere all’impulso di una recensione, meglio ancora a una stroncatura: genere, si sa, quanto mai piacevole da scrivere e da leggere.
Ma prendersela con un libro – come ho fatto peraltro la scorsa settimana con un bestseller da mezzo milione di copie: so di non essere coerente – non lascia tranquillo il recensore intransigente: chi sono io, in fondo, per sdottorare su un libro che è chiaramente piaciuto a così tanta gente, non ultimo a un amico di cui apprezzo le letture e i giudizi? Non sarà piuttosto l’invidia a muovere il critico dilettante, che non ha una riga sotto il suo nome, davanti a, per esempio, un bestione di ottocento pagine in via di traduzione in settanta paesi? La stroncatura lascia strascichi di ripensamenti e sensi di colpa. Nihil nisi bonum: perché parlar male di qualcuno, o qualcosa? Occupiamoci di quanto ci piace e lasciamo stare il resto.
Non resisto però a non elencare qualcuno dei peccati di quel libro, senza nominare il peccatore: l’autobiografismo un po’ sfigato, la prima persona invadente e fastidiosa, la voce e la lingua piatta e omologata, come scrivono altri cinquanta o cento autori. Come sembrano scrivere quasi tutti gli autori italiani contemporanei, mi spingo a dire: rarissimo, quasi unico trovarne uno che rischi un’invenzione, una deviazione da quella lingua che sembra una traduzione, o fatta apposta per essere tradotta. Esiste una chiarezza che è eleganza e profondità, e ne esiste un’altra che è monotonia e assenza di rischi, di voce. Un romanzo non è una sceneggiatura.
La lettura mi ha suscitato però un ragionamento di ordine, diciamo così, generazionale. I problemi dell’autore contemporaneo, a cui è dedicato tanto spazio nel libro da cui sono partito, sono quelli usuali che affronta oggi un uomo sulla quarantina. D’accordo, la sua generazione è rimasta fregata, eterni adolescenti che non possono o non vogliono crescere: ma a quale generazione, esattamente, è andata tanto meglio? A quelle delle guerre mondiali, a chi ha attraversato un paio di rivoluzioni, qualche epidemia, la minaccia atomica?
Il recensore intransigente a questo punto è tentato di rincarare la dose e confrontare il contemporaneo con qualche augusto nome degli anni precedenti: per coincidenza il vagabondaggio tra i libri mi ha portato di recente ad Alberto Arbasino. Che, al confronto, giganteggia. Ma che dico: domina, sovrasta. Quelli sì che erano scrittori! Verrebbe da dire. Mentre questi autori di oggi…
A questo punto però – e vengo al dunque – il lettore onesto deve riconoscere un dubbio: che il suo sguardo passatista sia forse viziato da un errore di prospettiva. Prendiamo gli autori italiani di metà Novecento, diciamo quelli con pubblicazioni importanti negli anni Sessanta e Settanta. Fanno parte del gruppo – anche se in fasi diverse della loro carriera artistica – Dino Buzzati, Elsa Morante, Carlo Emilio Gadda, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Tommaso Landolfi, Alberto Moravia, Goffredo Parise.
Anche in questo piccolo canone, a fianco di una serie di piccoli e grandi capolavori, nella bibliografia di quegli autori si trovano spesso (sempre?) passi falsi clamorosi, libri non riusciti o che non reggono la prova del tempo. Per non parlare della selva di altri romanzi pubblicati in quegli anni, che magari ottenevano una notorietà discreta, ma che a riprenderli oggi si fatica ad arrivare in fondo. Si può dire, e sono pronto a difendere quest’opinione, che anche Calvino e Buzzati abbiano scritto discrete schifezze.
Forse l’approccio nostalgico verso il passato è frutto del solo fatto che, se ancora oggi si leggono gran bei libri d’altri tempi, sono quelli che hanno retto alla prova del tempo, che ancora sono in grado di far parlare di sé. Non dico che si debba dunque concludere che tutti i tempi sono uguali: a guardare la lista di poco sopra si fa fatica a non ammettere che ci fosse qualcosa di diverso nell’aria. Ma chi, oggi, legge ancora i Sillabari di Parise o La noia di Moravia? Il lettore spazientito è invitato a un esercizio di tolleranza: il tempo aiuta la selezione, sii gentile con il titolo d’oggi che forse non resterà domani.
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La penso anch'io così ed è una riflessione che mi sento di estendere anche ai film o ad altre forme d'arte. Sui film per esempio, di cui m'intendo un poco, si tende a dire, di fronte allo sfacelo odierno fatto di sequel, prequel, reboot, esplosioni: "certo che l'epoca classica di Hollywood, i musicals, i noir della Warner Brothers", ecc. Poi però ci si rende conto che oggi si finisce per vedere solo il meglio di quell'epoca, i titoli che hanno attraversato i decenni. Se appena si approfondisce un po' e si va a curiosare fra titoli meno noti, si scopre che almeno il 90% dei noir è di un livello imbarazzante, buono per bambini di dieci anni, che tantissimi prodotti erano indistinguibili l'uno dall'altro, standard collaudati riproposti all'infinito. Del resto forse è normale: ci mancherebbe che i capolavori abbondassero. Sarebbe una contraddizione in termini...