Nella scorsa puntata ho parlato di una scoperta italiana. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
In una celebre trasmissione televisiva di molti anni fa, un giovanissimo Nanni Moretti dialoga – ma sarebbe meglio dire litiga – con Mario Monicelli (vi consiglio il video, che trovate qui). La trasmissione si chiamava Match, la puntata andò in onda nel 1977 e ricordo la sorpresa, la prima volta che la recuperai attraverso chissà quale catena di suggerimenti su YouTube, nella scoperta che il conduttore fosse Alberto Arbasino.
Arbasino, morto nel 2020, era scrittore raffinato e molto altro. Per me, che ne ho incrociato solo la parte finale della carriera – e assistetti anche a una sua lezione-incontro in Normale, di cui però non ricordo assolutamente nulla – è stato anche un prolifico mittente di brevissime e spesso incomprensibili lettere ai quotidiani nonché, su quegli stessi quotidiani, un critico d’opera in lussureggianti articoli altrettanto opachi. Per motivi anagrafici non conoscevo il suo passato di conduttore televisivo e ancor meno di deputato (per i Repubblicani, negli anni Ottanta).
Mi sentivo in vena di una lettura dal passo lungo, c’era lo sconto sugli Adelphi e così mi sono procurato Fratelli d’Italia, il fluviale libro di Arbasino pubblicato inizialmente nel 1963 e poi riscritto più volte, l’ultima nel 1993 (Adelphi, 1371 pagine). Un libro per tanti aspetti straordinario, costruito per divagazioni, aggiunte, accumuli; fatto di continui giochi di parole, parodie, aneddoti, così come di allusioni al teatro, alla letteratura, alla musica. Poche righe per farsene un’idea, aprendo il libro quasi a caso (da p. 168):
«Duchessa della moda! di Verona! Sarta a Verona e a Roma e naturalmente dice lei a Parigi. La prima a lanciare in provincia il gran medaglione d’oro barbaro a collo, insieme alla cappa cardinalizia da sera. Gli ha sopralzato abusivamente un’altana di Topolino sui tetti del Collegio Romano: tutta una moquette a pelo lungo e un chintz lavabile con fiorellin de prato e vista sull’Eccellentissima Casa Doria Pamphilj»
«Pensiero & Azione, chi dei due?»
«Lei Kapital, lui Jane: in un bel vagoncino da Settebello in boiserie, commentando gli editoriali di “Rinascita” col poeta Angeloni, un duro; e sul davanti la porta di casa con tutto il movimento; e dietro la Silvana che bene i succhi e fa le telefonate scoreggiando in letto».
«Una duchessa che si chiama Silvana, adesso? Sarà almeno del Sacro Romano Impero!».
Che cosa voglia dire «un’altana di Topolino», chi l’abbia sopralzata, o se il «poeta Angeloni» esista, o il senso pieno dell’ultima battuta: tutti particolari che sfuggono, ma tutto sommato non è importante, giacché Fratelli d’Italia è un’unica grande allusione, un sorrisetto che prende in giro il mondo intero, lettore incluso, una divertimento preso molto sul serio.
Come molti scrittori dalle idee forti, Arbasino ha lasciato il segno. E le sue idee erano l’importanza dello stile, il valore estetico dell’arte e della letteratura come bene supremo, il disprezzo per gli scrittori che negli stessi anni si dedicavano alla descrizione delle miserie piccoloborghesi (Moravia è una specie di ossessione). Per gli scrittori italiani della generazione successiva, quella arrivata a maturazione negli anni Ottanta e Novanta, Arbasino era uno con cui fare i conti: Pier Vittorio Tondelli lo nominava esplicitamente tra i suoi modelli, ma lo si vede altrettanto bene dietro Aldo Busi (quasi un Arbasino in minore) o Walter Siti.
A voler studiare Arbasino ci sarebbe un’infinità di cose da dire, anche solo per decifrarne i riferimenti. Lo scrittore perfetto, non a caso, per quel tempio dell’erudizione ossessionato dal citazionismo che era la Normale. Tra i molti motivi di interesse, il fatto che Fratelli d’Italia sia figlio del boom economico e rifletta quell’Italia arrembante, ottimista, a tratti vacua, e non ancora tramortita dalla stagione del terrorismo; o la definizione che ne dava lo stesso autore, per cui il libro era un romanzo «classico», per cui c’è molto da esplorare nella sua idea di romanzo e nel rapporto tra quel libro e gli altri esperimenti dell’avanguardia (di cui Arbasino faceva parte in quegli anni).
Però, però. Spogliato degli interessi storici e letterari, la lettura di Arbasino alla fin fine stanca. Non con quella noia necessaria che si prova quando si affrontano certi grandi capolavori, una noia che non si può evitare e che alla fine è parte del viaggio verso qualcosa di più profondo. Ma la noia che viene da una certa ripetizione del gesto, dal dire troppe volte la stessa cosa, per quanto in bello stile. Quanto a lungo si può sostenere una conversazione brillante? Fratelli d’Italia lo fa per quasi millequattrocento pagine, e già dopo duecento si ha l’impressione che sia abbastanza.
Gli scrittori con qualcosa di davvero interessante da dire sono pochi e Arbasino è sicuramente uno di questi: e se Oscar Wilde diceva che non c’è bisogno di bere tutta la botte per capire che un vino è cattivo, si deve ammettere che anche del vino buono ci si può stancare dopo qualche bicchiere.
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