Nella scorsa puntata ho parlato di che cosa sia lo stile (per la seconda volta). Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Il valore di un’opera letteraria sembra impossibile da definire. Che cosa fa di un libro un bel libro? È difficile infatti negare che esistano, nell’esperienza di qualsiasi lettore, libri di differente qualità. Ma nessuna soluzione che abbiamo accennato nelle scorse settimane per individuare un criterio intrinseco è soddisfacente: il grado di realismo, la capacità di trasmettere emozioni, la bontà dell’indefinibile “stile”, un intreccio ben costruito... Ogni ipotesi, presa singolarmente, porta a problemi di definizione e a contraddizioni. (D’altra parte so che non scopriamo certo qui l’oscurità dei concetti di arte e di bellezza: ma non è importante, dopotutto si finisce sempre per provare a risolvere le stesse vecchie domande.)
L’unica risposta appare essere quella individualista. Se è impossibile definire criteri oggettivi e intrinseci, tanto vale arrendersi al fatto che le uniche valutazioni estetiche siano soggettive. Tutt’al più si possono aggiungere criteri esterni di successo commerciale (o fortuna culturale, a patto di saper aspettare). Il principio strettamente individualista, unito magari a quello commercial-culturale, sembra peraltro quello più comunemente diffuso oggi. Tra non specialisti, la motivazione più diffusa per affermare il valore di un libro è il fatto che venda e, poiché viene acquistato da molte persone e presumibilmente apprezzato, dunque dovrà possedere anche un valore artistico. Ogni altra valutazione passa in secondo piano, viene messa tra parentesi.
Vale la pena approfondire l’idea individualista e provare a portarla alle sue estreme conseguenze. Ammettiamo che il modo migliore di valutare la qualità di un libro sia affidarsi al mero dato di vendita, considerandolo una buona approssimazione dell’apprezzamento da parte dei lettori. Siamo dunque arrivati a una soluzione di tipo, diciamo così, statistico: il libro migliore sarà quello che è piaciuto a più persone, portandole all’acquisto.
Si tratta, per prima cosa, di un indicatore molto inaffidabile. Le mode, un prodotto televisivo liberamente tratto o adattato da un’opera, il richiamo di un nome famoso portano a comprare libri per motivi ben differenti dalla qualità. Se anche non lo fosse, arriveremmo comunque al paradosso di non considerare molto di valore tutti i libri più importanti degli ultimi decenni. Non sono un esperto dei numeri del mercato letterario, ma Fabio Volo potrebbe aver venduto tante copie quante Italo Calvino, e forse di più.
Solo una posizione estremamente cinica si arrende alla tirannia del numero. La capisco ma non la accetto. E non accettandola si arriva presto, per quanto sia sgradevole da ammettere, che tra i lettori uno non valga uno. Ci sono infatti lettori che hanno una sensibilità più spiccata, in parte per più lunga frequentazione dei libri, in parte per istinto, in parte perché in grado di interrogare i testi con le giuste domande. Li chiameremo, utilizzando un nome fané, i critici.
Il problema è che i critici sono scomparsi. Oggi, certo per molti complessi motivi – non esiste più un pubblico omogeneo, le riviste culturali hanno perso centralità, la cultura non è più appannaggio di pochi – il ruolo di chi stronca ed esalta, di chi riconosce e promuove tendenze, di chi indica in qualche modo la strada ha interpreti diversi rispetto al passato. I libri che appaiono sulle pagine culturali dei quotidiani, soprattutto se si parla di narrativa, sono scelti con ogni probabilità da abili uffici stampa e potenti direttori di collane editoriali, da chi decide i premi letterari.
Saprei fare il nome di tre o quattro critici contemporanei, ma dovrei ammettere subito dopo che non contano nulla. Le loro scelte non sono ascoltate, le loro opinioni tutto sommato irrilevanti: non tanto perché non arrivino alle masse, ma perché non sono parte dell’orizzonte di nessun lettore ragionevolmente informato e curioso. Forse sbaglio, ma la critica come istituzione – cioè con un ruolo preciso e riconosciuto al di fuori dei suoi ristretti confini – non esiste più. E d’altra parte gli ultimi grandi critici come Harold Bloom o George Steiner spendevano non poche energie in tirate rancorose contro le nuove tendenze e molti nuovi autori (il primo) oppure si dedicavano solo a classici ormai parte della tradizione, rifiutando di fatto di occuparsi dei contemporanei (il secondo).
Insomma: tra i criteri esterni per la valutazione di un’opera letteraria, l’unico che sembra dare qualche garanzia è quello di assegnare una qualche responsabilità ai critici. Che però non esistono più o, se esistono, non sono ascoltati. Perché? Ed è possibile pensare che ritornino?
Siamo rimasti con un più di un dilemma irrisolto e non resta che accettare la temporanea sconfitta. Ho un paio di letture in programma che potrebbero darmi una mano, ma per il momento smetto di giocare con il dubbio, ripongo la questione. Torna il momento, la settimana prossima, di parlare di libri veri, giocando un po’ a dare giudizi e opinioni su quei misteriosi oggetti.
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E poi, giusto per aggiungere carne al fuoco, a complicare ulteriormente i giudizi ci sarebbe anche il problema della traduzione. Uno legge, per fare un esempio, un libro di Elmore Leonard in originale e, beh, è "quasi la stessa cosa", ma decisamente non è la stessa cosa. E non è che il traduttore abbia chissà quali colpe, anzi. È semplicemente che certe parole, certi suoni, certe costruzioni (es. i fantastici dialoghi zeppi di parolacce dello scrittore americano) nella lingua italiana, come dire, perdono forza. E nonostante il mio inglese non sia eccelso, alla fine il libro è più godibile in originale. Quindi, ancor più difficile giudicare il valore di un testo.
Eppure, qualcosa c'è. La scorsa estate, per esempio, complice un viaggio nei Balcani, mi sono cimentato con Ivo Andrić, che non conoscevo. Sono bastate poche pagine (naturalmente tradotte...) per dire: "ci siamo". Insomma: aliquid est, non credo ci siano dubbi. Ma come definirla? Forse, anche per lo stile, potremmo citare il celeberrimo "Io sono colui che sono" (scherzo eh...): magari non sai dare una definizione, ma quando c'è, in qualche modo te ne accorgi.
Mi verrebbe da dire che la critica letteraria rimane racchiusa, perlopiù, in ambito accademico. E mi verrebbe da dire che è difficile determinare il perché della "sparizione" dei critici. Forse perché è cambiata la società e con il lei il modo di comunicare; si predilige la velocità e fare critica letteraria significa analizzare una complessità di segni, serve rallentare e serve saper ascoltare. Inoltre, la tecnologia ha portato alla diffusione massiva di tecnologie multimediali: stare al passo con tutto risulta difficile. E non tutti i mezzi sono "adatti" allo scopo.
Forse si potrebbe richiamare Walter Benjamin nel saggio “L’origine dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” e la perdita dell’unicità dell’opera d’arte e del suo concetto di “aura”.