Nella scorsa puntata ho parlato di romanzi contemporanei e di bei tempi andati che forse non lo furono. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Nell’uscita precedente me la sono presa con un romanzo contemporaneo di uno scrittore sulla cresta dell’onda, in cui dicevo di non trovare granché di interessante nelle storie che raccontava né in come lo faceva (a proposito: alcuni di voi mi hanno scritto per consigliarmi contemporanei di valore. Grazie dei suggerimenti, sto recuperando tutto). Ma mi è sovvenuto un dubbio: davvero si può rimproverare a un autore di raccontare storie poco interessanti? In tanti dei romanzi migliori la trama non c’è, oppure è davvero esile, o ancora è pericolosamente simile ai tormenti di un malcresciuto come nel nostro innominato peccatore della scorsa puntata.
La storia del Giovane Holden, dopotutto, si riassume in mezza frase: un ragazzo viene buttato fuori dal college e deve tornare a casa. E non parliamo dei romanzi che parlano proprio dell’immobilità della situazione e dei personaggi: Il deserto dei Tartari, oppure La montagna incantata, per fare due facili esempi. Insomma, si può serenamente osservare che una vicenda appassionante non sia necessaria per fare un bel libro. C’è pieno di grandi libri con trame affascinanti o ricche di invenzione – in questo campo mi viene sempre in mente come sommo esempio Gabriel García Marquez – ma si può benissimo scrivere un romanzo parlando di piccole nevrosi e angosce generazionali, come provava a fare il maldestro contemporaneo di cui sopra.
Dunque la differenza, è quasi una banalità notarlo, sta non nel che cosa si dice, ma nel come lo si dice. Il valore sta nello stile: pensiero che mi gira nella testa da qualche settimana, ma più ci rifletto più il problema mi sfugge da tutte le parti, rifiuta di mettersi a fuoco. Che cos’è, dopotutto, lo stile? Non è soltanto la gradevole disposizione delle parole, l’attento uso di figure di suono, di ordine, di significato. Si può annoiare con grande eleganza e non dire nulla in modo impeccabile. Certo la letteratura italiana contemporanea non corre questo rischio, scegliendo di norma un linguaggio medio e piano, monotono come una voce di Wikipedia, ma ci sono state fasi storiche in cui la letteratura è fiorita in una serie di svolazzi, con risultati tutt’altro che esaltanti (mi chiedo se un giorno mai si recupereranno, al di fuori delle aule scolastiche, certi atroci poeti barocchi). La maestria nell’uso della lingua non basta ad essere bravi scrittori. Ci può essere, dunque, forma senza sostanza.
Ma a volte, e qui le cose si fanno più complicate, c’è la sostanza senza la forma. Esistono infatti autori che scrivono male, intendendo dire con questo che fanno della lingua un uso non del tutto proprio, o non particolarmente interessante, o in alcuni casi persino scorretto. Esempio che ho familiare è George Orwell, il quale, tutte le volte che l’ho letto, mi ha lasciato sempre l’impressione di un autore che maneggia la lingua come un’accetta, senza tante mezze misure né finezze (l’amico Dario, quando gli ho esposto questi pensieri, mi ha suggerito l’esempio simile di Alexandre Dumas). Ciò non toglie – ecco il punto – che 1984 oppure La fattoria degli animali o anche Il conte di Montecristo siano bei libri.
Insomma, si fatica a uscire dal paradosso: si può scrivere qualsiasi cosa, purché la si scriva bene; eppure, anche saper scrivere bene non è sufficiente, e anzi ci sono autori che sono grandi pur scrivendo male. Forse, ma la mia è solo un’ipotesi, vicende interessanti e bei personaggi possono sopportare anche una cattiva scrittura: lo stile diventa necessario invece quando gli altri elementi – diciamo le strutture narrative, i personaggi, la trama – sono carenti. Se non hai una bella storia da raccontare, insomma, almeno scrivi in modo elegante. Ma di nuovo si torna nel vicolo cieco dei poeti barocchi.
Sulle soglie di questo paradosso vorrei fermarmi oggi, per non annoiarvi: ma il ragionamento prosegue e ve ne vorrei dare conto nelle prossime puntate. Se vorrete, potrete già pensare qualcuna delle obiezioni a quanto ho scritto oggi, e farmele sapere nei commenti o rispondendomi, oppure scoprire nelle prossime uscite se sono le stesse a cui ho pensato io.
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Mi piace questa potenziale discussione e spero di non abusare di uno spazio che non è mio scrivendo ancora. Anch’io spesso mi sono chiesto: perché mi è piaciuto, per dire, “Madame Bovary”, tanto da essere uno dei pochi libri che ho riletto? Eppure è la storia di una donna di provincia che viene sintetizzata nella fantastica scena di lei davanti allo specchio che sussurra: “Ho un’amante!”. Non molto originale, in effetti. E perché invece, quando ho provato a cimentarmi con John Grisham (pensando: l’hanno letto milioni di persone, qualcosa di buono dovrà pur esserci) ho gettato la spugna dopo pochi capitoli? Eppure nel primo caso si racconta una storia banalissima, simile a quella di milioni di persone, mentre nel secondo ci sono intrighi sofisticati, colpi di scena, ambienti esotici, ecc. La prima provvisoria risposta che mi sono dato è che i personaggi di Flaubert, per imperscrutabili motivi, mi sembravano vivi, reali, più veri del vero. Seguirli nelle loro vicissitudini era un po’ soddisfare una specie di voyerismo, vedere come se la cavavano, come “vivevano” insomma. Invece con Grisham mi sembrava di seguire dei cartonati in movimento, di percepire i meccanismi utilizzati dallo scrittore: ecco, ora metto una battuta di alleggerimento, ora un personaggio secondario che poi si rivelerà decisivo, adesso un inseguimento, una sparatoria, la scena di sesso, l’agente segreto, il doppio gioco. Impossibile provare interesse. Dire questo, tuttavia, significa in fondo non fare alcun passo avanti. Come mai uno riusciva dove l’altro falliva? Qual era il discrimine? Lo stile? Rieccoci daccapo. E ancora: ma non c’entreranno anche i gusti personali? Magari qualcun altro si annoia a morte con Flaubert e si esalta con Grisham. Esistono criteri obiettivi per giudicare? Secondo me in qualche modo sì. Ma quali sono? Di nuovo al punto di partenza… insomma, domande su domande e nessuno straccio di risposta. Forse perché una spiegazione non c’è. Ma come esserne sicuri? Se fosse un problema matematico, esisterebbe astrattamente la possibilità di dimostrare che la soluzione “esiste” o “non esiste”, anche senza indicare quale essa sia. Ma in questo caso? Chissà.
Grande Zagno. La mia opinione: l’arte di scrivere non dipende dalla fantasia per raccontare grandi storie, né dall’abilità stilistica in senso stretto. Ma dalla capacità in generale di (ri)creare e trasmettere atmosfere, emozioni, mondi in maniera nitida e viva. In tal senso, penso che il “come” sia molto più importante del “cosa” venga scritto. A tale scopo, un bello stile di solito aiuta, ma è più la capacità di mettere a fuoco il dettaglio o l’aspetto giusto che conta. Senza stile, si può sempre descrivere e creare in maniera semplice un mondo o una trama avvincente; o addirittura ci sono bei libri scritti con stile semplice e piatto, che parlano di vicende ordinarie senza che accada molto, ma che sono bei libri perché comunque riescono a dipingere un quadro che vive. È saper cogliere i tratti che rendono un quadro vivo, e scriverne, che rende uno scrittore un artista.