Nella scorsa puntata ho parlato di che cosa sia lo stile. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Riprendo le fila del ragionamento cominciato nella scorsa puntata, in cui mi chiedevo se si potesse far coincidere il valore di un’opera letteraria con il suo stile. La risposta, mi pare si possa concludere, è no: non basta avere buone capacità tecniche nell’uso della lingua per garantire la bontà del risultato. Peraltro è piuttosto difficile definire che cosa sia lo stile, così come rispondere all’obiezione teorica secondo cui la distinzione tra stile e strutture narrative sia del tutto illusoria. La forma è sostanza: non si può scindere ciò che si dice da come lo si dice.
D’accordo. Se non nello stile, dunque, in che cosa consiste il valore? Domanda essenziale. Diversi lettori hanno contribuito con la loro risposta. Il mio amico Cesare, in un lungo scambio via messaggio, ha suggerito che per la valutazione di un’opera letteraria sia fondamentale tenere conto del suo successo nell’interpretare e rappresentare un’epoca, così come espresso nella sua influenza storica e culturale.
Fino al paradosso (almeno apparente) in cui la storia, i personaggi o le caratteristiche essenziali di un’opera – prendiamo Jules Verne o Pinocchio o Robinson Crusoe o Madame Bovary – entrano nella cultura successiva acquistando vita indipendente rispetto al testo. Si può parlare di bovarismo o di Pinocchio, ma anche far riferimento a una situazione kafkiana, o a un’invenzione borgesiana, senza aver letto una riga di Flaubert, Collodi, Kafka o Borges. Cesare arriva a questa conclusione pensando soprattutto alla letteratura cosiddetta “di genere”, che spesso è di per sé non di grande qualità letteraria, secondo i canoni tradizionali (prendiamo Salgari o Dumas), ma capace di esercitare grande influenza sulla cultura.
Comprendo il punto di vista, e spero di non averlo semplificato troppo. Secondo questa impostazione l’impatto culturale, o la fortuna storica, descrivono caratteristiche esterne all’opera. Definire il valore soltanto in base ad essi equivale in sostanza a far coincidere la critica letteraria con la storia della cultura: i criteri di valutazione di un’opera d’arte diventano criteri storici. Chi parla di libri dovrebbe insomma ammettere una sconfitta: dei libri si possono osservare magari alcune caratteristiche tecniche, ma poi il giudizio va sospeso per trenta o cinquant’anni, finché il tempo dirà se la fortuna dell’opera “tiene”.
Capisco, ma vorrei evitare di ammettere la sconfitta. La mia risposta, o se vogliamo la mia speranza, è che ci debba essere qualcosa di intrinseco nell’opera che ne determina il valore. Si pone quindi il problema di spacchettare che cosa componga l’opera, ridurla a un insieme di fattori. Come già abbiamo concluso parlando dello stile, ciò però è molto difficile e forse impossibile. Eppure è un’operazione necessaria, per arrivare al risultato che mi interessa. Maurizio, via mail, mi ha scritto che nelle scuole di scrittura creativa si insegna a considerare quattro elementi fondamentali: «lo Stile, l'Intreccio, la Storia e il Mondo».
Apro una parentesi. L’indicazione di Maurizio mi fa pensare alla capacità di sintesi che si riflette nella didattica, in questo caso nei corsi che insegnano a scrivere. Come è possibile tracciare le origini teoriche dell’analisi del testo che si fa nella scuola secondaria, così sarebbe interessante capire – e in parte si intravede – che cosa hanno riassunto, distillato e reso adatto all’insegnamento le scuole di scrittura creativa. Queste infatti si basano di certo, magari anche inconsapevolmente, su posizioni teoriche nel campo dell’estetica letteraria più complesse ed elaborate. Anni fa partecipai a un corso di scrittura cinematografica e scoprii che la bibbia di quell’arte era un manuale (ora non ricordo l’autore) che elencava una serie di regole pratiche per la scrittura di sceneggiature: ci dev’essere un protagonista, questo deve avere un problema (un “movente drammatico”), la storia deve avere un apice nel percorso di risoluzione di quel problema e poi avviarsi a uno scioglimento, positivo o negativo. Ciò che trovai affascinante era che, per approccio e risultati, la ricetta di un film di successo ripeteva né più né meno che gli intrecci più frequenti del racconto di fiabe analizzati nel celebre Morfologia della fiaba di Propp, un saggio del 1929 di fondamentale importanza per la nascita dello strutturalismo a metà degli anni Cinquanta. In altre parole, chi scriveva i blockbuster hollywoodiani era erede intellettuale diretto, per quanto inconsapevole, del formalismo russo di inizio Novecento. Fine della parentesi.
Prendendo per buoni i quattro elementi che si insegnano nelle scuole di scrittura (stile, intreccio, storia, mondo), però, si arriva al problema che ha messo bene a fuoco F.P. nei commenti alla scorsa uscita, e che chiameremo «il dilemma di Grisham». Una perfetta padronanza di storia e intreccio, nonché la costruzione di un mondo interessante, fatto ad esempio di spie e intrighi internazionali, può portare a risultati di grande successo commerciale ma che risultano artificiosi. «Cartonati in movimento», scrive F.P., che lasciano «percepire i meccanismi utilizzati dallo scrittore». Mentre i bei libri, quelli che restano, hanno capacità che sia F.P. che l’amico Raphael, in un altro commento, descrivono usando parole molto simili, quelle della vita e della realtà: presentare personaggi «vivi, reali, più veri del vero»; «(ri)creare e trasmettere atmosfere, emozioni, mondi in maniera nitida e viva»; «dipingere un quadro che vive».
Osservazioni importanti, che – tanto per cambiare – aprono a nuove questioni. Prendiamo ad esempio la «vita», la cui presenza ben due commentatori avvicinano molto al valore di un’opera d’arte. Questa vitalità si potrebbe anche tradurre, credo, nell’unione di un certo realismo con la capacità di trasmettere emozioni.
Entrambi i concetti però sfuggono a facili delimitazioni. L’aspetto di realismo o di verosimiglianza, infatti, declinato nella dimensione psicologica, si adatta bene a mettere a fuoco il valore di Madame Bovary – chi non ha mai sognato di evadere dai limiti imposti dalla realtà, dalla condizione sociale? – ma si fa più sfuggente a voler valutare, diciamo, La biblioteca di Babele. Qual è la verosimiglianza di una biblioteca che contiene il risultato di tutte le combinazioni di lettere possibili? Si potrebbe dire che la realtà viene colta da Borges tramite una metafora: ma allora non è più realista né verosimile, e il nostro concetto ci scappa dalle mani. Abbandonarlo, e ammettere un “realismo mediato”, fa presto rientrare Grisham dalla finestra, dopo che lo avevamo cacciato dalla porta. Esistono anche nella vita reale, dopotutto, gli intrighi, il senso dell’avventura, i colpi di scena. Un personaggio di Grisham è più realista di una fattoria di animali antropomorfi.
Problemi simili si presentano anche con la capacità di emozionare. Se è troppa, si scade facilmente nel patetismo, nel kitsch, nel masscult: penso a opere che suscitano emozioni forti – sono fatte apposta – ma che risultano far violenza al lettore un po’ avveduto e respingerlo (no, non voglio piangere per ’sto diavolo di personaggio che muore…). Si potrebbe rispondere che le emozioni suscitate debbano essere sottili, mediate, ambigue. Ma più apriamo la porta all’indeterminatezza – qui come con la questione del realismo – più aumenta la difficoltà di definizione, i concetti ci scappano da tutte le parti. Siamo punto e a capo, e si profila all’orizzonte una soluzione che sarebbe un po’ una sconfitta: quella individualista. Qua e là emerge già nella discussione e nei commenti che ho ricevuto fin qui, ma ne parleremo per esteso la prossima volta.
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P.S.: Presto torneremo a parlare di libri più da vicino, promesso: con la prossima puntata credo che concluderemo, almeno per il momento, le speculazioni teoriche. Grazie per la pazienza fin qui, intanto. Credevo che lanciarsi in questa esplorazione speculativa avrebbe falcidiato il numero dei miei lettori, ma i numeri smentiscono. Che bella sorpresa.
In sostanza, mi pare di capire che il tuo cruccio principale stia nel non riuscire a spiegare tramite principi semplici e universali che cosa sia la bellezza, declinata in ambito letterario. Domanda su cui hanno dibattuto per secoli filosofi, critici d’arte e pensatori: se mai tu ci dovessi riuscire, sarei ben contento di andare in giro a raccontare di conoscere un luminare :-).
Personalmente, non ho mai sentito il bisogno di darvi risposta: se da un lato fa parte dell’istinto umano cercare di capire e spiegare il mondo attraverso principi primi, dall’altro sono ben felice di accettare il fatto che esistano cose la cui complessità è sostanzialmente o difficilmente riducibile. In alcuni casi basta, o è preferibile, percepire, senza il bisogno di capire. Il concetto di bellezza è talmente vasto, e allo stesso tempo effimero, evolve nel corso del tempo, della storia, varia da cultura a cultura, da individuo a individuo, che dubito si riesca mai a identificarvi qualche principio primo universalmente riconoscibile. È poi affascinate notare quanto sia labile il confine tra bello e brutto in generale, ad esempio pensando ai tratti del viso di una persona. Per cui anche avendo a disposizione un’ipotetica ricetta universale per la bellezza letteraria, sarebbe probabilmente molto facile farne un uso imperfetto ed ottenere un risultato mediocre.
Resta comunque la consolazione che, valutando una singola opera, si riesca di solito ad individuarne gli elementi (almeno alcuni) che ne fanno qualcosa di grande, oppure quelli che stonano e che la rendono un risultato mediocre o velleitario. È un po’ come saper riconoscere il valore del rum in un tiramisu, o l’eresia dell’ananas sulla pizza, per banalizzare. Il problema è che questi stessi ingredienti possono giocare un ruolo totalmente diverso in altri contesti, immaginando ad esempio il rum sulla pizza o un po’ di ananas nel tiramisù.
Quindi, rinunciamo a cercare di spiegare in cosa consista in sostanza l’arte di scrivere? Direi di si. E per un aspirante scrittore amatoriale, non ci sono quindi corsi di scrittura, linee guida, principi semplici che possa seguire per imboccare subito una strada promettente? Personalmente, dubito. L’unica via è affidarsi al talento naturale più o meno grezzo che uno può avere, posto che ce ne sia, scrivere, provare e perseverare, cercando di valutare a posteriori, in maniera disinteressata, con l’aiuto della critica altrui se possibile, se ci sia un germe che brilla da rispolverare, e quali siano le spigolature da limare.