Nella scorsa puntata ho parlato di letteratura sudamericana. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Ho cominciato a leggere il nuovo libro di Cormac McCarthy, Il passeggero (Einaudi, 392 pp.; titolo or. The passenger, 2022), appena uscito in italiano. McCarthy è uno dei più importanti scrittori contemporanei, che non pubblicava un romanzo dal 2006 con La strada. Le aspettative sono alte. Memore del recente giudizio affrettato su Arbasino, però, mi riprometto di farne una recensione completa soltanto a lettura conclusa.
Prendo solo spunto allora dall’inizio del libro di McCarthy. Il primo capitolo si apre con una sorta di visione, lo scambio tra un personaggio e un’apparizione piuttosto inquietante chiamata, nell’originale, The Kid. In una puntata di qualche tempo fa parlavo del difficile rapporto che ho con le descrizioni letterarie, cioè le rappresentazioni dettagliate dello spazio tramite le parole: ho l’impressione che non funzionino mai, cioè che non riescano a restituire un’immagine soddisfacente dei luoghi e degli ambienti che vorrebbero ricreare nella testa del lettore.
Ora, partendo dallo spunto di McCarthy, vorrei aggiungere alla lista delle cose che mal sopporto anche un altro settore i cui contorni esatti fatico a definire con precisione, ma che potremmo definire come i sogni e le visioni.
Rientrano in questa categoria le semplici descrizioni delle avventure oniriche dei personaggi, ovvero gli inserti narrativi che riportano ciò che essi sognano; non valgono naturalmente le opere in cui il sogno è semplicemente la cornice narrativa di tutta la vicenda e ne costituisce, per così dire, una premessa, come Alice nel Paese delle Meraviglie. Ma vi rientrano anche quasi tutti i casi di visioni o deliri, ad esempio perché i personaggi sono sotto l’effetto di stupefacenti o in uno stato di particolare difficoltà psicologica. Ho l’impressione che, sulla carta, questi inserti non funzionino quasi mai. Già nella realtà il sogno è un’esperienza nebulosa, sfilacciata, dai contorni indistinti: trasferito sulla pagina il risultato è quasi sempre ugualmente confuso, con l’effetto ultimo di suscitare nel lettore una noia mortale.
Nel descrivere i sogni, l’autore deve infatti restituire il senso dell’indeterminatezza onirica ma allo stesso tempo far passare alcuni significati che abbiano senso nell’economia del testo, aggiungendo qualcosa alle vicende o ai personaggi. Poiché tuttavia i tempi e il gusto precludono il ricorso all’allegoria come in un testo medievale – nei quali il protagonista sogna l’anticipazione esatta di quanto gli accadrà e qualcuno, qualche pagina dopo, gliela spiega per filo e per segno – l’autore moderno è costretto a mettere in scena situazioni bizzarre o distorte, con diversi elementi di nonsense e di superfluo (ciò che, mi pare, avviene anche nelle prime pagine del nuovo libro di McCarthy) e il rischio, soprattutto con le penne meno felici, di snervare e spazientire il lettore.
Non mi viene in mente un solo esempio di sogno o visione che non costituisca un allentamento, un peggioramento della tensione della pagina. Il celebre passaggio nel Giovane Holden che dà il titolo nell’originale inglese (The Catcher in the Rye, letteralmente “il prenditore nella segale”) è una di queste visioni, ma la descrizione dura in realtà soltanto poche righe ed è la brevità ad assicurarne la riuscita. Viceversa, potrei elencare diversi romanzi resi tremendi dal ricorso alla descrizione onirica o all’ambientazione visionaria.
Parte della mia malsopportazione dev’essere, non ho problemi ad ammetterlo, un’idiosincrasia personale: anche nella realtà trovo il racconto dei sogni la singola esperienza più immediatamente soporifera della vita intera, insieme ai racconti delle grandi mangiate e alle foto delle vacanze. Nella scrittura si ha l’impressione che l’inserto onirico sia un espediente per aggirare l’operazione faticosa di rispettare la coerenza del mondo in cui si è scelto di ambientare la propria vicenda, per lasciare briglia sciolta alle parole nell’illusione di riuscire a dire di più ponendosi in uno spazio dove le norme della logica e della coerenza non valgono. Ma la descrizione del sogno è il pezzo di bravura dello scrittore pigro.
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Sull’opportunità dell’inserto onirico come espediente narrativo condividi la stessa opinione di Chuck Palahniuk, e anche la mia: i brevi fictional dream sono noiosi, autoreferenziali e auto compiaciuti. A meno che tu ne faccia una cifra stilistica totale e coerente. Vedi Alice, come hai scritto tu. Io vivo così anche Il Processo di Kafka. Più facile se racconti per immagini, vedi Fellini. D’altra parte, se ci pensi, anche nella vita reale, quando qualcuno ti racconta un sogno è quasi sempre una noia mortale. Troppo intimo, legato al proprio personale immaginario e alle specifiche sensazioni, poco condivisibile. Come certe descrizioni delle fantasie erotiche. È un terreno minato per uno scrittore.