La scorsa settimana ho parlato di lettori assonnati. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo e qui un bilancio del primo anno di questa newsletter. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Borges scrisse da qualche parte che era sempre molto felice di accettare gli inviti alle conferenze dove gli si chiedeva di parlare dell’Ulisse di Joyce, libro che non aveva mai letto per intero (ne avevamo già parlato a proposito della noia di leggere). La frase mi rimase subito impressa, tanto che trascurai di segnarmi da qualche parte dove l’avevo trovata: meccanismo curioso e frequente, quello di dirsi “mi ricorderò certamente dove ho letto una frase così bella”, e che porta invariabilmente a smarrire i riferimenti per sempre, proprio come l’azione di lasciare le chiavi di casa in un posto diverso – “certo mi ricorderò di averle posate in un luogo così inusuale” – condanna l’incauto riordinatore a ricerche snervanti nel prossimo futuro.
Di Borges, innamoramento giovanile, posso dire di aver letto tutto o quasi. Tutto almeno quanto raccolto nei due Meridiani dedicati sotto il perentorio titolo Tutte le opere, anche se il lettore bibliofilo ribatterà che un nuovo canone si sta formando con l’edizione integrale che sta curando da anni per Adelphi Tommaso Scarano.
Il fatto è che posso dire lo stesso quasi di lui e di pochissimi altri. La lista dei grandi autori di cui non ho mai letto un libro intero è senz’altro più lunga di quelli che ho frequentato. L’uomo senza qualità? No. Faulkner? Nada. Sterne? Zero. Simone de Beauvoir? Zilch. Jane Austen? Niet. E Rabelais, Böll, Allende, Dumas…
C’è poi la categoria, altrettanto vasta, di quelli di cui ho letto solo qualche pagina. Ad esempio David Foster Wallace: le prime cento pagine di Infinite Jest, qualche racconto, forse un saggio. Oppure Proust, che pure riconosco come un assoluto capolavoro, e di cui parlerei volentieri in una conferenza: forse duecento pagine dal primo libro della Recherche. Poco di Steinbeck. Un paio di libri di Hemingway, non i più famosi. Quasi nulla di Shakespeare, nientemeno.
E infine ci sono quelli che ho letto un sacco di tempo fa e che nel frattempo mi sono dimenticato del tutto o quasi. Moby Dick, Günter Grass, Balzac, Madame Bovary. Una giornalista americana – che, di nuovo, non saprei ritrovare – descriveva la sensazione di disagio di quando, a una festa, si fanno due chiacchiere con qualcuno e la conversazione cade su un libro che si è letto, sì, ma di cui non si ricorda assolutamente nulla. Al lettore accanito questa situazione accade con inquietante frequenza.
Ma quel lettore è spesso un imbroglione: è in grado di parlare a lungo di cose che non sa. O meglio: spesso basta poco per farsi un’idea su uno scrittore, anche senza lunga frequentazione. Confesso di avere, di molti scrittori, un’opinione assai articolata, positiva o negativa, senza essermi dato la pena di leggere tutto o neppure molto.
Trovo assai affascinante la teoria letteraria di Franco Moretti – celebre critico letterario, fratello del regista Nanni – secondo cui, per lo studio della letteratura, leggere i testi è in sostanza inutile: troppo rimarrà escluso e non si potranno certo fare commenti sui generi letterari o sulle tendenze dell’Ottocento sulla base della limitata esperienza individuale del singolo lettore, anche il più vorace. E dunque il futuro sta nello studio tramite il computer: i database libreschi possono essere analizzati al meglio – possono essere letti – tramite un algoritmo.
Non posso addentrarmi di più nella teoria del distant reading di Moretti perché – avete indovinato – non conosco molto bene i suoi scritti. Ma certo rimane geniale l’intuizione che, nella biblioteca del lettore accanito, i libri sconosciuti facciano comunque sentire la loro influenza, siano importanti quasi quanto quelli che si sono letti.
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Mi considero un lettore accanito, tuttavia la verità nelle parole della giornalista americana - quelle riguardanti il disagio di non ricordare un libro che si è letto - genera un che di "male". Sarà perché è un attacco frontale allo status di lettore accanito (ma come, ti definisci tale e non ricordi di che trattava quel romanzo?), eppure c'è tristemente del vero.
Credo però che in parte sia giustificato: uno ha una passione (in questo caso la lettura), la estremizza e di conseguenza è costretto a fare i conti con la quantità (nella speranza che nei grandi numeri vi sia tanta qualità).
Tuttavia non ho potuto fare a meno di gettare uno sguardo circolare alla mia libreria, una rassegna rapida dei dorsi di copertina, dei nomi degli autori e relativi titoli. Allora ecco che se anche qua e là c'è un buco (non mi ricordo assolutamente la storia raccontata in quel libro), grossomodo della maggior parte un'idea di massima posso affermare sia sopravvissuta nella memoria, ma ancor di più le sensazioni prodotte dalla lettura allora fatta, piacevoli o meno che siano state.
Mi chiedo allora se le sensazioni, appunto, non siano una valida alternativa laddove le informazioni, sepolte nel passato, sono giocoforza difficili da recuperare proprio a causa di quella esuberante quantità...