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Totalmente d’accordo su quanto detto riguardo alla saturazione del campo dello studio e della ricerca: penso sia uno dei motivi principali di disillusione di chi persegue ricerca accademica, ritrovarsi a lavorare su argomenti di nicchia iperspecializzati pur di avanzare su un campo inesplorato.

Ma dissento fortemente sul problema in quanto a produzione artistica letteraria: il valore di un’opera non sta nel “cosa” si racconta, ma piuttosto nel “come” lo si racconta. Allo stesso modo, i pittori continuano a dipingere ritratti, nonostante ne siano già stati dipinti migliaia, perché il valore di un ritratto non sta nella bellezza o particolarità di un soggetto, ma nelle sfumature del prodotto artistico. Molti capolavori letterari, riassunti in parole povere, hanno trame piuttosto banali. E ci sono sempre infiniti modi e stili con cui la stessa storia può essere riraccontata e risultare in un nuovo capolavoro.

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Credo che l'idea ci sia, sia consistente, ma la strettezza della focale porta a conclusioni errate, seppure sembri il contrario. Il punto sarebbe che rischiare non solo è utile, ma necessario. E' vero che c'è sovra-abbondanza, che genera rumore, ma quel che manca è la sintesi, o meglio, il salire di livello. Molto meglio semplificare, anche a costo di banalizzare, per sintetizzare e cercare la sinergia con visioni diverse. Quando tutto è molto accademico, si rischia il troppo accademico, l'iper specialistico. Il nostro è un mondo che vede nella iper specializzazione un valore, quando invece si tratta di un dis-valore: non è nel super dettaglio oppure nella completezza della bibliografia che si vede il vero (o il verosimile) ma al contrario nella sinergia con aree diverse (tralasciando il superfluo). Se questo poi dovesse risultare indigesto all'accademia, bene, ben venga. Rischioso? Certo! Ma è lì che si trova la scoperta, lo sguardo nuovo, qualcosa di simile al vero.

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