La scorsa settimana ho parlato di W.G. Sebald. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Nella cultura contemporanea c’è un curioso paradosso. Da un lato, lo straordinario accesso garantito da Internet ci mette in continuazione di fronte a informazioni nuove, quando non ad interi campi della conoscenza inesplorati. Fino a ieri non sapevo nulla della storia del Galles: poi mi sono imbattuto in un lungo articolo sulla storia del Galles negli ultimi cinquant’anni e, incuriosito dall’argomento stravagante, ho speso mezz’ora tra i movimenti autonomisti gallesi. E anche quando non è soltanto il caso a guidarmi, ma una mia curiosità in collegamento con un’esperienza personale o altre letture, posso dare per scontato che qualcuno ne abbia già scritto: che anzi parecchi lo abbiano fatto, e che quindi sia possibile cercare già il miglior articolo o il miglior libro in materia e partire da lì.
Una simile abbondanza ha del miracoloso, se la si confronta con la plurisecolare scarsità di libri e di informazioni. Anche senza andare indietro fino alla biblioteca di Petrarca fatta di cento libri o poco più (come ricorderanno i lettori della prima ora), prima dell’avvento di Internet le curiosità intellettuali potevano essere soddisfatte con ragionevole facilità solo in presenza di biblioteche ben fornite. Oggi è sufficiente un computer e, per i più esigenti, una carta di credito.
Questa è l’esperienza del lettore. Ma l’abbondanza stimola il pensiero e, di tanto in tanto, può far nascere collegamenti o idee originali. O che almeno così ci sembrano. Ma allo stesso tempo – e vengo al paradosso – da quel diluvio di informazioni viene una fondamentale insicurezza. Intuiamo che, da qualche parte, quella bella idea è già stata scritta da qualcuno, e il tema a cui abbiamo appena cominciato ad appassionarci sia già stato esaurito da legioni di ricercatori o semplici curiosi. Se per ogni tema possiamo recuperare con facilità parecchi testi, il rovescio della medaglia è che non esistano temi che non siano già stati abbondantemente esplorati. E dunque, se il lettore è felicemente sazio, chi vuole scrivere o studiare con la pretesa di aggiungere qualcosa si trova al contrario in difficoltà e paralizzato.
Un’altra conseguenza dell’abbondanza è che studi che attraversino più di un’area di competenza, o che escono da un perimetro assai ristretto, si fanno rischiosi. Se su ogni tema esiste una corposa bibliografia, solo per padroneggiarla con ragionevole completezza ci vogliono anni, anche se una parte rilevante sarà fatta di cose inutili o ripetitive. Diventare esperti di qualcosa oggi costa molta fatica.
Una volta, durante una conferenza, mi permisi di fare riferimento esplicito a un famoso saggio degli anni Quaranta in un campo che non era il mio (An Analysis of Rumor di Allport e Postman, che tratta della diffusione delle dicerie – oggi diremmo della disinformazione – e si recupera facilmente online, ad esempio qui). Uno dei relatori successivi, piuttosto infastidito, ci tenne a puntualizzare che molto altro era stato scritto sul tema dopo di allora – volendo sottintendere che io non avessi idea di che cosa stessi parlando, mentre lui sì, in quanto specialista della materia.
Aveva certamente ragione: il punto, tuttavia, è che l’estrema settorializzazione della conoscenza porta ogni occasione di scambio – conferenze, gruppi di esperti, volumi collettanei – ad assomigliare a un dialogo tra sordi. Ciascuno è esperto di un argomento ridotto, se non minimo; si guarda bene da uscire da quello e, d’altra parte, difende con permalosità ferina chi vi si avvicina. Generalizzare è un rischio e, sollevandosi sopra il particolare, ogni generalizzazione si espone a un’infinità di obiezioni di dettaglio: dunque la scelta più sicura è quella di non rischiare.
Non è un caso, credo, che gli studi letterari a livello universitario siano oggi dominati dalla ricerca delle fonti, cioè dall’esercizio di trovare in quali altri testi si possano rintracciare le immagini, i pensieri, persino le vicende dell’opera oggetto di studio. Con effetti a volte comici: ricordo un seminario universitario in cui ci si occupava delle fonti di un componimento attribuito a Dante, fino a farlo diventare un improbabile centone di autori latini semisconosciuti e con ogni probabilità inaccessibili per Dante.
Molti dei libri che aprono davvero la mente sono però quelli che azzardano paragoni tra cose lontane, trovano un taglio originale per sintetizzare storie lunghe secoli, in altre parole che rischiano un po’. È un piacere poter approfondire centinaia di temi diversi ogni settimana, ad averne il tempo, dalla storia del Galles alla formazione delle galassie: qualche volta si vorrebbe andare dal dettaglio al panorama, e non è un caso forse che un autore come Yuval Harari – che non ho letto, ma che certo pensa in grande – sia diventato un bestseller globale.
E gli scrittori? Sospetto che la tirannia dell’abbondanza si faccia sentire anche sulla letteratura contemporanea. Qualche giorno fa Massimo Mantellini ha scritto un bel post in cui registrava che una sua riflessione sulla scomparsa di qualcuno, scritta anni fa con la certezza che fosse personale e originale, si ritrovasse in realtà anche altrove: in ben due testi in cui si è imbattuto nella sua esperienza personale di lettore, necessariamente limitata, e dunque – aggiungo io – chissà in quanti altri.
L’accesso a un numero di romanzi, racconti, libri di viaggi e zibaldoni di pensieri quasi illimitato ha un effetto simile, sospetto, sullo scrittore e sullo studioso. Scrive Mantellini:
Dopo aver letto Canetti la prima reazione fu pensare che a quel punto tanto valeva non scrivere più nulla. Che qualsiasi cosa avessi scritto ci sarebbe stato in giro qualcuno che lo aveva già scritto meglio. È un po’ la stessa cosa che capita a un romanziere vero (non a uno “in prova” come me), a patto che sia dotato di senso del proprio limite (cosa che in effetti non sempre accade), quando legge Roberto Bolaño. Un senso di straniamento che dice: ma allora? Che cosa ci faccio io qui adesso? Che senso ha ora il mio lavoro?
Ho letto di recente un libro di Bolaño, senza ricavarne l’impressione della fine dell’arte, ma capisco il punto: nella stritolante varietà dell’abbondanza ciascuno ha sicuramente incrociato un libro che gli è sembrato il libro definitivo.
Bisogna smettere di scrivere allora? Credo di no.
Per prima cosa, l’infinita abbondanza è certo un’illusione: per quanto grande sia il numero di libri scritti, esso è solo una frazione di quelli che si scriveranno. La prima via d’uscita davanti al paradosso dell’abbondanza è, paradossalmente, di tipo quantitativo: i libri si continuano a scrivere e pubblicare a ritmi prima di oggi inauditi. La seconda è il fatto che la nostra ignoranza rimane oceanicamente vasta: quanto non sappiamo è almeno altrettanto voluminoso di quello che conosciamo bene. Libri e articoli continuano ad apparire ogni giorno, così come si scrivono ancora copiosamente romanzi e racconti. La lista di domande senza risposta, in ogni campo, è infinita. La terza, a mio parere, è la più importante, ed è la necessità di uscire dal pregiudizio della novità. Ma di questo parleremo la prossima settimana.
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Totalmente d’accordo su quanto detto riguardo alla saturazione del campo dello studio e della ricerca: penso sia uno dei motivi principali di disillusione di chi persegue ricerca accademica, ritrovarsi a lavorare su argomenti di nicchia iperspecializzati pur di avanzare su un campo inesplorato.
Ma dissento fortemente sul problema in quanto a produzione artistica letteraria: il valore di un’opera non sta nel “cosa” si racconta, ma piuttosto nel “come” lo si racconta. Allo stesso modo, i pittori continuano a dipingere ritratti, nonostante ne siano già stati dipinti migliaia, perché il valore di un ritratto non sta nella bellezza o particolarità di un soggetto, ma nelle sfumature del prodotto artistico. Molti capolavori letterari, riassunti in parole povere, hanno trame piuttosto banali. E ci sono sempre infiniti modi e stili con cui la stessa storia può essere riraccontata e risultare in un nuovo capolavoro.
Credo che l'idea ci sia, sia consistente, ma la strettezza della focale porta a conclusioni errate, seppure sembri il contrario. Il punto sarebbe che rischiare non solo è utile, ma necessario. E' vero che c'è sovra-abbondanza, che genera rumore, ma quel che manca è la sintesi, o meglio, il salire di livello. Molto meglio semplificare, anche a costo di banalizzare, per sintetizzare e cercare la sinergia con visioni diverse. Quando tutto è molto accademico, si rischia il troppo accademico, l'iper specialistico. Il nostro è un mondo che vede nella iper specializzazione un valore, quando invece si tratta di un dis-valore: non è nel super dettaglio oppure nella completezza della bibliografia che si vede il vero (o il verosimile) ma al contrario nella sinergia con aree diverse (tralasciando il superfluo). Se questo poi dovesse risultare indigesto all'accademia, bene, ben venga. Rischioso? Certo! Ma è lì che si trova la scoperta, lo sguardo nuovo, qualcosa di simile al vero.