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Ci sarà qualche meccanismo psicologico, qualche sindrome dal nome esotico, per spiegare la diffidenza di qualche lettore accanito, tra cui chi scrive, verso le nuove uscite librarie di cui si parla molto. Nel mio caso, non appena un nuovo titolo – delle migliaia e migliaia pubblicate ogni anno – esce dall’onesto anonimato, o dal circolo di chi lavora per o intorno l’editoria, la mia prima reazione è di girarvi alla larga, di evitarlo accuratamente, di studiare scientemente come evitare di leggerne recensioni o commenti. Potrei fare una lista dei libri che ho evitato negli ultimi anni e sarebbe, con pochissimi titoli mancanti, una lista di sfolgoranti successi editoriali. Non ho una spiegazione valida a questo mio comportamento, e per questo mi appello all’analisi psicologica futura: paura di essere deluso? Voglia di andare controcorrente? Rifiuto della pressione sociale? Ciascuna teoria mi sembra inadeguata.
Non solo, ma a complicare la sindrome, mi succede di recuperare i libri già di moda a distanza di qualche anno, spesso con un’improvvisa e incomprensibile urgenza. Ho letto Alice Munro due o tre anni dopo la sua vittoria del Nobel, con grande diletto, dato che i suoi racconti sono di una straordinaria bellezza. Perché ho aspettato così tanto? Non me lo spiego.
Nel 1965 un professore di scrittura creativa dell’università di Denver, in Colorado, pubblicò il suo terzo romanzo, intitolato Stoner (dal cognome del protagonista), che passò quasi inosservato. Ma qualcuno se ne ricordò nel 2005, quando venne ripubblicato nella prestigiosa collana dei classici della New York Review of Books. Di lì a qualche anno, diventò un caso editoriale in Europa, Italia compresa (ha contribuito alle fortune della casa editrice Fazi, che ne pubblica la traduzione italiana).
E per qualche anno, avuta notizia, chissà come, di questo nuovo caso letterario, me ne sono tenuto accuratamente alla larga.
Ho fatto passare il tempo prescritto dalla mia sindrome, poi ho letto Stoner e mi sono accorto subito – come molti altri hanno detto prima di me – che ero davanti a un libro bellissimo. Uno di quei libri, e non sono molti, che ogni tanto viene voglia di rileggere, come ho fatto in questi giorni.
Si può intuire perché Stoner non abbia avuto successo quando uscì, a metà degli anni Sessanta. Era troppo in anticipo. In quegli anni venivano pubblicati Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, Il lamento di Portnoy di Philip Roth, Arancia meccanica di Anthony Burgess: libri coraggiosi, potenti, spesso estremi, che trattavano di razzismo e violenza e delle oscurità dell’animo. Mentre Stoner è delicato, minimalista, racconta una storia ordinaria e senza grandi sconvolgimenti lasciando sullo sfondo, accennati ma in larga parte assenti, i temi dell’impegno di quegli anni.
Stoner risuona molto più attuale oggi, in tempi di disimpegno politico e di ansioso individualismo: i suoi mezzi toni non sono troppo lontani dai racconti di Munro, la sua scrittura secca ricorda il distacco di Cormac McCarthy. A rileggerlo, la sua estraneità rispetto al tempo in cui è stato scritto lascia sconcertati: è come se Williams avesse viaggiato in avanti nel tempo di quarant’anni.
Mi sono chiesto allora se non si tratti di una consonanza fortuita: ovvero se la bellezza di Stoner non sia soltanto una temporanea e tutto sommato casuale coincidenza con quanto piace a noi, oggi. C’è il rischio che sia così e d’altra parte non c’è modo di verificarlo: chissà come sarà il gusto tra cinquanta o cento anni. Ma se il classico è quel libro che esprime al meglio l’universale tramite il particolare, una delle definizioni che mi sono sempre sembrate più azzeccate, allora Stoner è senz’altro un classico.
Non voglio rovinare la lettura a nessuno parlando di trame e personaggi, e trovo che parlare bene di un libro sia un’impresa troppo difficile: stroncare è facile e divertente, ma spiegare perché un libro sia un capolavoro suona sempre come un esercizio di stile, un faticoso girare intorno l’unica verità che accomuna tutti i capolavori, e cioè che, per una misteriosa e irriducibile consonanza di ciò che si racconta e come viene raccontato, quel particolare libro è allo stesso tempo in grado di dare piacere a chi legge e di essere uno strumento di conoscenza di sé stessi e del mondo. Stoner lo è, per quello che dice della letteratura, delle relazioni umane, della società. Ogni tanto mi trovo di nuovo spinto verso la rilettura, sicuro di trovarci qualcosa di bello, e ogni volta il miracolo si ripete. Leggetelo, se riuscite, e ditemi se sbaglio.
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