Nella scorsa puntata ho parlato di quando la vita distrae dalla lettura. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
E poi dicono che la tecnologia può far tutto! Né ChatGPT appena tornato disponibile in Italia, né una ricerca sul mio Kindle e neppure diverso tempo speso su Google mi hanno fatto ritrovare il brano di un racconto il cui senso era: nella vita, una persona avrà solo un certo numero di conoscenze, uno assai più piccolo di amicizie e uno ridottissimo di mogli o mariti. E per questo motivo, concludeva l’autore con humour anglosassone, esiste il divorzio.
Il brano – che spero accenda una lampadina in qualcuno di voi dalla memoria migliore della mia – mi è tornato in mente mentre cercavo di fare una lista degli autori più importanti per la mia carriera di lettore. Non per forza i migliori, né i più interessanti e neppure quelli che oggi direi sono i miei preferiti: ma quelli il cui incontro in un momento decisivo ha cambiato il mio rapporto con i libri.
Va da sé che per motivi anagrafici si tratti anche di autori in cui mi sono imbattuto relativamente presto: c’è un piacere della scoperta che è appannaggio esclusivo della giovinezza, passata la quale anche le scoperte più straordinarie non suscitano più la stessa meraviglia. Un po’ come quando si comincia ad ascoltare musica per conto proprio e si fanno esperienze che spalancano la porta su mondi sconosciuti: passati i vent’anni, o giù di lì, difficile che succeda di nuovo.
C’erano stati Arthur Conan Doyle e Emilio Salgari, Jules Verne e Jack London, perfino qualcosa di Joyce e Dostoevskij, ma il primo autore della mia lista delle scoperte rivoluzionarie è stato Michail A. Bulgakov con Il maestro e Margherita. Quello fu il primo, almeno a mia memoria, che fece scattare qualcosa e mi mostrò che con le parole si potevano fare cose davvero straordinarie, inaugurando una stagione piuttosto lunga – ma quando si è giovani il tempo scorre molto più piano – in cui andai a caccia di libri di Bulgakov dovunque li trovassi.
Il secondo fu Thomas Mann, grazie a una copia dei Buddenbrook che comprai in una libreria del centro – per quanto sembri implausibile a me per primo, da ragazzini uno dei posti in cui passavamo parecchio tempo nelle prime uscite da soli, il pomeriggio, era una bella libreria su due piani, un’istituzione cittadina che non si trova più lì da tempo – con il criterio di selezione di un grande autore il cui nome avevo già trovato da qualche altra parte, ma soprattutto perché era il libro più grosso, proprio in termini di pagine, che potevo permettermi con il mio biglietto da ventimila lire. Cominciò così un’altra stagione di caccia, questa volta al Thomas Mann, che si esaurì qualche tempo dopo davanti alle celebri e micidiali descrizioni musicali del Doktor Faustus – la mia passione per l’autore scontrandosi con la sua teutonica pesantezza.
Il terzo e ultimo fu Jorge Luis Borges. Una curiosa notizia di cronaca su di lui – il fatto che, dopo la morte della moglie, non è chiaro a chi appartengano i diritti delle sue opere – ha messo in moto la catena di pensieri di cui vi parlo questa mattina. Borges arrivò al momento giusto, nei miei anni più giovani e vulnerabili. Un amico di famiglia mi prestò L’Aleph e inaugurò una stagione di almeno un decennio in cui con Borges ebbi assidua frequentazione, fino a farmi regalare, per una cifra che allora mi pareva favolosa, uno dei due Meridiani Mondadori con le opere complete. Al netto del fatto che quella raccolta è in realtà una selezione, dato che Borges disconobbe diversi libri giovanili, l’autore argentino è di certo il primo, e uno dei non molti, di cui ho letto tutto, ogni volta ritrovando in lui una voce unica e affascinante.
Ce ne sono stati tanti altri importanti, alcuni più o meno negli stessi anni, ma mai come la triade Bulgakov-Mann-Borges. Difficile ricostruire con precisione come quegli incontri abbiano influenzato i miei gusti e la mia carriera di lettore successiva, eppure anche oggi mi è chiaro che il debito verso di loro è fondamentale. Se invece del Maestro e Margherita ci fosse stato, che so, Una vita violenta, e L’urlo e il furore al posto dell’Aleph apprezzerei cose diverse, cercherei cose diverse nella letteratura, vedrei, alla fin fine, la realtà con altri occhi? Probabilmente sì. Facciamo tanti incontri, ma alla fine il caso sceglie quei pochi che davvero ci cambiano a vita.
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Per me fu Hemingway. Allora ero molto giovane e pensavo che la lettura fosse una noia e "una cosa da sfigati" (quando si è adolescenti questo è un aspetto fondamentale!). Non ricordo come mi ci imbattei, nella casa dei miei genitori non c'erano libri e forse fu un compagno di scuola a prestarmelo, chissà. Va da sé che, riprovando molti anni dopo a rileggerlo, non riuscii a provare le stesse sensazioni. Però fu la chiave che aprì la porta. Da lì tutti i suoi libri, poi gli altri americani della prima metà del '900, poi gli americani contemporanei e poi ogni porta ne apriva mille altre, ecc.; la stessa esperienza di ogni lettore, immagino. Mi dispiace invece di non poter essere utile circa l'autore della parafrasi di inizio post. Suona un po' come qualcosa che potrebbe aver scritto Malcolm Lowry, ma in realtà non ne ho la più pallida idea...