Nella scorsa puntata ho concluso una serie in tre parti che partiva dalla domanda su che cosa fosse lo stile. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Cominciamo con un’ammissione di colpa. Il lettore sa che ogni tanto la prima impressione non è quella giusta e il giudizio iniziale è stato affrettato: così ho liquidato troppo alla leggera, e in modo in parte ingeneroso, Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino (Adelphi, 1993, pp. 1371). Qualche settimana fa ne scrissi dopo aver letto poche centinaia di pagine e registravo una certa ripetitività, una certa fatica. Arrivato al termine, devo ammettere che sbagliavo. Forse sono entrato nel meccanismo del libro, forse ho imparato ad apprezzarne la voce, forse ancora una parte è davvero migliore (ci vorrebbe una seconda lettura, ad averci il coraggio…).
Fatto sta che, dalla metà circa, l’elefantiaco libro di Arbasino toglie tutti i dubbi e costringe il lettore a riconoscere che si è di fronte a un capolavoro. Si avverte il cambio di passo con il capitolo Condizione del dolore: una descrizione straordinaria (largamente autobiografica? la verve che sembra venire da una ferita ancora aperta lo farebbe sospettare) di miserie piccoloborghesi e dinamiche familiari e sociali asfittiche, di un ambiente tutto ripiegato su se stesso e dedito a un’insensata mortificazione, a una desolante povertà d’animo. Dietro la (sua) famiglia c’è l’Italia di decenni fa, ma Arbasino coglie qualcosa di essenziale anche dell’oggi. Su tutti, questo passaggio: «E il pericolo più temuto: concetti chiari e riflessioni analitiche» (p. 782).
La paura dei concetti chiari e delle riflessioni analitiche, dopotutto, la vediamo benissimo ancor oggi in tanti aspetti della nostra vita quotidiana: negli articoli di giornale incomprensibili; nella lingua giuridica che sembra una caricatura; nella mediocrità di chi, in ambito lavorativo o accademico o letterario, nasconde dietro alla complessità della forma la povertà del contenuto.
Dalla chiarezza alla precisione: una delle frasi più giuste in cui mi sia mai imbattuto – il mio amico Marcos che me la suggerì ormai parecchi anni fa – su che cosa sia la scrittura e che cosa debba fare lo scrittore dice:
Fundamental accuracy of statement is the ONE sole morality of writing,
ovvero:
La precisione essenziale dell’enunciato è l’UNICA moralità della scrittura.
La frase è di Ezra Pound, e il fatto che si trovi in un’opera piuttosto oscura (Past History, un saggio su Joyce pubblicato nel 1933) fa pensare che ad averla popolarizzata sia stato un assai più accessibile scritto di Raymond Carver, On writing, in cui l’autore diceva di aver trascritto la citazione di Pound su un foglietto che teneva appeso al muro vicino alla sua scrivania (il testo è disponibile qui).
Se la fundamental accuracy of statement è l’unica moralità dell’arte letteraria, Pound da un lato rifiuta la dimensione dell’etica, almeno nella forma esplicita e militante della letteratura impegnata, e dall’altro dichiara che cosa, secondo lui, dovrebbero cercare gli autori.
Come sempre, però, le cose si complicano a guardarle più da vicino. Che cos’è, in fondo, la precisione che ha in mente Pound? La sua affermazione è tutt’altro che evidente. La descrizione esatta delle cose, si potrebbe rispondere; ma è chiaro che questa interpretazione intuitiva impedisce di andare troppo lontano. Nulla ha la sua descrizione perfetta, né tantomeno corretta. Lo stesso oggetto – pensiamo ad esempio alla luna – può apparire in decine di opere in prosa e poesia, in secoli e secoli di letterature diverse e lontane, inserito all’interno di infiniti statement diversi, e nessuno potrebbe stabilire quali siano più o meno “corretti” o precisi.
L’accuracy potrebbe essere l’esatta corrispondenza tra parola e pensiero, forse, cioè un alto grado di fedeltà tra quanto l’autore voleva esprimere e quanto ha alla fine espresso. Ma il pensiero è per sua natura inconoscibile e a tutti gli effetti inesistente fuori dalla sua espressione. Come valutare la precisione nel mettere per iscritto qualcosa che esiste solo nella testa dell’autore? E d’altra parte ogni traduzione in parole – tanto tra lingua e lingua, quanto tra idea e scrittura – è per forza di cose un adattamento, una distorsione, un tradimento. Torna alla mente il detto buddista secondo cui le parole sono nemiche della comprensione. Eppure, prima di gettare la spugna, intuiamo che cosa Pound volesse dire. L’errore è provare a spiegarlo.
Commenti? Idee? Suggerimenti? Puoi scrivermi rispondendo a questa email.