La scorsa settimana ho parlato di lettori che accumulano. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Nei primi giorni della guerra in Ucraina mi sono procurato, spinto da quell’urgenza a cui accennavamo la scorsa settimana, La guardia bianca di Michail Bulgakov (Feltrinelli), romanzo ambientato a Kiev che non avevo mai letto nonostante una grande passione giovanile per il suo autore. Dalle pagine introduttive della curatrice Serena Prina ho scoperto la storia editoriale assai complicata del libro, che nei decenni – dopo la prima edizione incompleta su una rivista russa, nel 1925 – ha subito profonde modifiche (in particolare nel finale) a opera dei diversi editori nell’arco dei decenni.
Quando abbiamo per le mani un libro, non ci chiediamo quale sia l’origine del testo che stiamo leggendo. La domanda suona anzi piuttosto assurda. Il testo viene naturalmente dall’autore, che lo ha scritto e poi consegnato all’editore, giusto?
In realtà, la questione è spesso molto più complicata di così. Dacché esiste la scrittura, anzi, la trasmissione dei testi è stata di norma piuttosto travagliata. Nei lunghi secoli prima dell’avvento della stampa, i testi dovevano essere copiati a mano. E siccome l’operazione di trascrizione manuale, allora come oggi, non può essere svolta senza commettere errori – è inevitabile, specie in un testo molto lungo, saltare qualche parola, oppure ripeterla, o ancora leggere male e modificare il testo di partenza – ogni copia manoscritta risultava un po’ diversa dalle altre. La Divina commedia, l’Eneide, la Bibbia: alcuni dei libri più celebri della tradizione occidentale sono andati incontro a catene imperfette di copia per centinaia e centinaia di anni.
Si dirà che, per levarsi i dubbi, basta consultare l’originale. Ma in molti casi questo non c’è: abbiamo ottocento manoscritti superstiti della Divina commedia, ma nessuno di mano di Dante (di cui non è sopravvissuto d’altra parte alcun documento autografo) né l’originale di nessuna opera di Shakespeare, per fare soltanto due esempi. In assenza della volontà dell’autore di suo pugno espressa, i testi di maggior successo hanno prodotto per molto tempo tradizioni manoscritte complicate fatte di decine e a volte centinaia di testimoni tutti più o meno differenti tra loro.
Aggiungiamo che i testi, specie nel Medioevo e specie se in prosa, venivano spesso rimaneggiati, riassunti, tradotti: si creano così veri e propri rompicapi – almeno agli occhi del lettore che osserva la massa dei manoscritti a posteriori – in cui è di fatto impossibile ricostruire se quella pagina o quella frase risale alla versione più antica oppure a qualche anonima aggiunta di un copista particolarmente inventivo. Nelle parole di un autorevole studioso, la situazione che emerge dai manoscritti della Commedia arrivati fino a noi è «disperante», e proprio la fortuna dell’opera ha causato «effetti devastanti» quanto alla difficoltà di ricostruire con esattezza il testo originale.
La stampa ha eliminato la necessità della copia manuale, ma non ha risolto del tutto l’instabilità del testo. Diverse edizioni, interventi dell’autore o di censura, errori materiali: il caso di Bulgakov è più frequente di quanto non si immagini. Per questo esiste una specifica disciplina, la filologia, che si occupa in primo luogo di ricostruire lo stato “originario” del testo – semplificando, quello che si avvicina di più all’ultima volontà dell’autore (non ci addentriamo qui sulle varie complicazioni ulteriori, come quelle che vengono dai testi che non hanno un autore noto, frequente per le opere medievali).
Con la stampa, ad ogni modo, le energie da spendere per ricostruire il testo sono sicuramente minori. Non si tratta più di fare ordine tra venti o trenta manoscritti copiati in scrittori monastici. L’attenzione si è andata gradualmente spostando verso le carte lasciate dall’autore: gli autori più vicini a noi nel tempo hanno lasciato in molti casi i manoscritti su cui hanno lavorato, fogli scritti a mano (o battuti a macchina) con le loro cancellature, appunti, revisioni. E così il filologo è passato a ricostruire la preistoria di un testo nel processo creativo più o meno tormentato di chi lo ha scritto, piuttosto che l’esatta trafila della sua copiatura dopo che ha visto la luce.
Poi è arrivato il computer. Non conosco la frequenza con cui oggi gli autori scrivano a mano, ma è plausibile pensare che gran parte delle stesure delle opere letterarie contemporanee esistano come file di testo su qualche portatile. Durante la scrittura ci saranno errori, correzioni, cancellazioni, modifiche. Moltissime resteranno però invisibili sulla base del prodotto finale, registrate tutt’al più in qualche anfratto digitale.
Se non sono già irrecuperabili ora, quelle modifiche lo saranno presto, vista la rapida obsolescenza dei formati digitali. I file di testo hanno bisogno infatti di supporti dove salvarli e di dispositivi su cui leggerli: ma immaginate di avere le vostre poesie giovanili su un vecchio floppy disk. A meno che non abbiate la passione dell’archeologia informatica, esse sono molto più irraggiungibili delle consunte pagine di pergamena di un codice del XIV secolo, da cui ci separa soltanto una visita in biblioteca (va bene, i codici del Trecento non sono proprio aperti sul banco dei prestiti, ma questo è un altro discorso).
(A margine: si dice che su Internet le cose “rimangono per sempre”. Come sa chiunque ha avuto a che fare con un sito per qualche tempo, moltissimi materiali online diventano irraggiungibili, senza manutenzione continua e laboriosa, nell’arco di cinque o dieci anni. Chissà per quanto esisterà ancora, nella sua forma attuale, Google Books.)
Gli scrittori contemporanei avranno ancora una filologia? Esiste un fondo con i manoscritti di Philip Roth, ma probabilmente non esisteranno molte carte di Franzen (anche se, conoscendo il suo luddismo, magari sì) e ancor meno degli autori delle prossime generazioni. Dei libri resteranno a lungo le copie stampate. Il filologo del futuro sarà magari simile a un archeologo molto tecnologico, chino a recuperare frammenti di byte su un disco fisso usurato dal tempo. Nel frattempo registriamo una prossima scomparsa, la scomparsa dei manoscritti.
Commenti? Idee? Suggerimenti? Puoi scrivermi rispondendo a questa email.