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Jonathan Franzen è uno dei più importanti scrittori americani viventi e anche uno dei più ambiziosi. I suoi romanzi puntano in alto, continuando a rincorrere il mito – nonostante sia passato di moda da parecchio – del grande romanzo americano, cioè dell’opera che riesce a cogliere lo spirito del tempo e della nazione (gli Stati Uniti, naturalmente).
Non è uno scrittore molto prolifico. Deve gran parte della sua fama al suo terzo romanzo, uscito nel 2001, The Corrections (pubblicato in Italia da Einaudi). Nei vent’anni successivi ha scritto soltanto altri tre romanzi: Freedom (2010), Purity (2015) e il più recente, pubblicato a ottobre 2021, Crossroads (anche questo pubblicato in Italia da Einaudi). Franzen è anche celebre per essere, dal punto di vista culturale, un conservatore, con frequenti e radicali attacchi ai social network e al capitalismo tecnologico. In un suo saggio di qualche anno fa scrisse, causando non poco scompiglio, che Jeff Bezos, per quanto lo riguardava, era uno dei cavalieri dell’Apocalisse, visto l’impatto devastante che Amazon aveva avuto sulle librerie.
Mi sono avvicinato a Crossroads con una certa diffidenza. Se Le correzioni sono un libro bellissimo, Freedom era già un libro meno memorabile e Purity, beh, lo avevo trovato piuttosto insopportabile (ne avevo scritto una recensione qui). Cominciavo a sospettare che Franzen fosse uno di quegli autori da un solo libro: che cioè hanno soltanto un grande romanzo in canna e, scritto quello, non necessariamente come opera prima, si trascinano lungo i successivi provando a sfruttare oltre il necessario una vena via via più esile, quando non proprio estinta, con risultati sempre meno convincenti (qualche nome, solo per épater le bourgeois: Dino Buzzati, Umberto Eco, Michel Houellebecq).
Con Crossroads, Franzen ha smentito il mio pregiudizio. La storia è ambientata negli anni Settanta, scelta saggia per uno scrittore che tende a diventare un po’ didascalico e declamatorio quando tratta i grandi temi della società contemporanea (come in Purity). I protagonisti sono i membri della famiglia Hildebrandt, descritti mentre attraversano un periodo di grandi stravolgimenti. Il padre, Russ, è in crisi di mezza età. La madre, Marion, è alle prese con i ricordi della sua gioventù difficile. Tre dei quattro figli – Becky, Clem e Perry – attraversano adolescenze così traumatiche che gran parte dei lettori con figli teenager tireranno probabilmente un sospiro di sollievo e si diranno: poteva andare molto peggio.
La saggia scelta di ambientare il tutto cinquant’anni fa permette a Franzen di allargare il campo, soprattutto nella prima parte del libro (che è anche la meglio riuscita) e di non concentrarsi troppo sui tormenti interiori dei personaggi. Questi tormenti, soprattutto se di tipo ossessivo e maniacale (centrati sul sesso, sulle relazioni sentimentali, sulla droga), rimangono il territorio preferito di Franzen, il suo principale campo di interesse. Come Turner è un pittore di paesaggi, Franzen è uno scrittore di tormenti. E in questo genere era stato in grado di esibirsi con vette proustiane, e mai più raggiunte, nelle Correzioni.
In Crossroads, a fianco delle ossessioni malate – comunque presenti a piene mani – si aggiunge il tema della religione, dove ho ritrovato influenze di John Updike: scrittore della generazione precedente a Franzen, autore di moltissimi libri tutti competentemente e intelligentemente scritti, e che infatti viene menzionato di sfuggita da Franzen, verso la fine, descrivendo un’improbabile biblioteca. Scompare invece, o quasi, il tema delle differenze tra classi sociali, che Franzen aveva esplorato tanto bene in passato.
Non è facile gestire un romanzo con cinque o sei personaggi principali, e infatti qualche personaggio e qualche relazione non sono sviluppate in modo del tutto compiuto (Clem e il suo rapporto con Becky) e diversi spunti restano abbozzati e non sviluppati più per mancanza di forze e di tempo, sembra, che per reale volontà di lasciarli in sospeso (come le dinamiche della comunità Navajo). Interessante l’esplorazione del mondo religioso, e in un certo senso una boccata di aria fresca dopo Purity, ma rimane l’impressione che non sia l’ambito in cui Franzen si muove meglio: non è possibile che le uniche due strade per rapportarsi con il sacro siano l’esaltazione mistica o il rifiuto totale.
Ma tutto sommato Crossroads è un gran bel romanzo, coraggioso. Manca a Franzen la capacità di inserire le sue ossessioni in qualcosa di più, di far tendere le sue storie verso qualche verità ultima e universale come riescono a fare i veri capolavori. Tra quello che c’è in giro resta comunque uno dei migliori e c’è da essere contenti che sia tornato.
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Sono molto d’accordo con la sua recensione di Crossroads. Non le sembra anche che nell’affrontare il tema religioso Franzen abbia avuto in mente la Robinson? Solo che quel tema è il territorio della Robinson. Franzen arriva a farlo esplorare ai suoi personaggi con vette molto meno elevate e con sentieri che arrivano ad inerpicarsi forse solo alla base di quelle vette. In più, quando descrive Marion e Russ da appena sposati mi è sembrato che avesse le pagine di Revolutionary road fin troppo presenti.