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Ho visto il futuro del romanzo italiano e il suo nome è Gian Marco Griffi, si potrebbe dire parafrasando la celebre recensione di Jon Landau al concerto di uno sconosciuto ventiquattrenne del New Jersey che di lì a poco avrebbe fatto parlare parecchio di sé. Non fosse che questa non è esattamente una scoperta originale e nei mesi scorsi già in diversi hanno segnalato come Ferrovie del Messico (Laurana, 2022, 820 pp.) sia un libro notevole. È stato perfino candidato al Premio Strega, fatto che semmai sarebbe potuto andare a suo demerito, e invece no, tiriamo un sospiro di sollievo, Ferrovie del Messico è in effetti un gran bel libro, che entra solidamente nella classifica delle cose migliori pubblicate negli ultimi anni in Italia.
C’è un’aria latinoamericana, in Ferrovie del Messico, con Bolaño e J.L. Borges e García Márquez, e parecchi altri riferimenti letterari, giacché Griffi ci tiene a mostrare che ha letto i suoi libri. Ma il citazionismo non stucca e non diventa mai un arido pezzo di bravura. Perché c’è soprattutto il piacere di raccontare una storia d’avventura, a tratti surreale, animata da personaggi vivi e interessanti, a cui ci si affeziona (potremmo dire, tanto per far arrabbiare i devoti mariani, nel senso di Michele Mari, che se volevamo una rivisitazione contemporanea del romanzone di avventura Ferrovie del Messico batte Roderick Duddle dieci a uno). Soria surreale, dicevamo, e a tratti proprio assurda, con deviazioni rischiosissime: per qualche pagine ci si lancia in una specie di farsa con protagonista Adolf Hitler che, nelle mani di chiunque altro, avrebbe fatto finire il libro fuori dalla finestra.
E invece Griffi, con il suo spirito arrembante, con una spericolatezza da punk o da kamikaze, riesce nel miracolo di non sembrare neppure per un momento pretenzioso o fuori luogo. Anche gli eccessi sono giustificati dall’insieme, funzionano: come e perché non lo saprei bene spiegare. Non è neppure, anzi non è per nulla, l’esibizionismo dell’eccesso o la glorificazione del brutto, à la Pink Flamingos: no no, Griffi scrive proprio bene, e ha il tono giusto per fare tutto quello che fa. In tutto questo, il libro scorre che è una bellezza, con ottocento pagine che non si sentono. Se proprio c’è da trovargli qualcosa che non va, c’è che i momenti in cui si cerca di dire qualcosa di profondo, le cose più serie, non suonano sempre necessarie. Il dramma in una storia può essere presente anche senza nascondere una verità metafisica, soprattutto in un libro come questo, tutto sorretto dal puro piacere della narrazione, dell’invenzione gioiosa. E così infatti è l’esperienza della sua lettura, un vero piacere.
Simile, per qualche verso, è la leggerezza e l’ironia di La ricreazione è finita, di Dario Ferrari (Sellerio, 2023, 480 pp.), come Griffi un libro che si legge d’un fiato a dispetto della mole. Più omogeneo e meno ambizioso, tutt’altro tipo di riferimenti e di stile, La ricreazione è finita è un bell’esempio italiano di campus novel, quel genere di romanzi ambientati nel mondo dell’università: genere con solida tradizione anglosassone (con esempio come Philip Roth, Bradbury, John Williams, Franzen e Coetzee) ma di cui mi pare ci siano da noi pochi esempi di rilievo, il più importante dei quali potrebbe essere Scuola di nudo di Walter Siti. Peraltro ambientato anch’esso all’Università di Pisa, come il libro di Ferrari. Ma i modelli di Ferrari, che sul fronte letterario gioca a carte più coperte, sono piuttosto i bei libri di genere – i gialli o i romanzi storici – di cui il suo editore Sellerio ha pubblicato tanti ottimi esempi, da Camilleri a Malvaldi (tra i ringraziamenti del libro). Dietro la lingua piana e la costruzione senza pretese si intravede però di più. E la costruzione di un autore immaginario, così come della bibliografia che gli gira intorno, è portata avanti con bravura, scienza e coscienza, e chissà che non ci sia un po’ di Borges anche lì.
Il limite di Ferrari è l’opposto di quello di Griffi: si vede, si vede benissimo che Ferrari avrebbe diverse cose serie e importanti da dire, e anche se qualcuna qua e là la dice poi sceglie, come il suo protagonista, di non prendersi troppo sul serio, di schiacciare il freno quando potrebbe accelerare. Prende allora la strada di un bel colpo di scena finale, facendo deviare verso il giallo qualcosa che poteva benissimo diventare qualcosa di diverso, magari di più importante. Griffi sa quello che vale e punta alle stelle, col rischio di sbagliare il colpo; anche Ferrari lo sa, ma sceglie di puntare basso anche a costo di sacrificare qualcosa.
Proprio nel periodo dell’insoddisfazione per il grande appiattimento, insomma, arrivano due bei libri italiani che fanno pensare che ci sia ancora vita, là fuori.
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Aspetto che il libro di Griffi esca in ebook, per me un libro di quella mole è illeggibile in cartaceo. Ma pare che l'editore non abbia intenzione di rilasciare a breve una versione elettronica. Dal punto di vista strettamente editoriale siamo al passato più che al futuro.