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A fine marzo il podcast quotidiano del New York Times, che si chiama The Daily e da tempo è un mio rito giornaliero, ha pubblicato un’intervista con A.O. Scott, critico cinematografico del giornale per ventitré anni, per approfondire la sua decisione di non dedicarsi più ai film e abbandonare quindi la sua carriera di recensore.
Il critico dichiara che, rispetto ai suoi inizi professionali, il cinema di oggi è molto meno interessante, innovativo e coraggioso rispetto anche solo a vent’anni fa. Identifica il momento di svolta nell’arrivo degli IP-driven movies, etichetta piuttosto oscura che sta per “film guidati dalla proprietà intellettuale” e che, un po’ alla buona, potremmo chiamare i “film dei supereroi”. Tra la metà e la fine degli anni Duemila, infatti, i film dei supereroi si sono moltiplicati e hanno occupato gran parte del panorama cinematografico nel settore delle nuove uscite in sala.
Nella mia esperienza di spettatore semplice ho la stessa impressione. Ogni nuova uscita delle saghe del Marvel Cinematic Universe o dell’equivalente della DC – come si chiamano le serie di film dedicati ai vari Spider-Man, Batman, Avengers e così via – vengono accolti invariabilmente come l’uscita più interessante e attesa della settimana. Non solo, ma anche commentati con toni a tratti non troppo diversi da quelli usati per Bergman o Hitchcock. Ho sentito e letto, ahimé, un sacco di recensioni che scomodavano complesse teorie sociologiche per analizzare le trame di Batman o di Spider-Man, o dedicavano energie degne di miglior causa per dipanare la matassa di citazioni e riferimenti incrociati tra i film dello stesso cinematic universe. Energie intellettuali spese per quelle che, a mio modestissimo avviso, sono sempre sembrate rumorose, scintillanti, magari anche piacevoli o perfino divertenti, baracconate troppo costose.
Verso quel tipo di film, A.O. Scott ha parole ancora meno tenere. Chiama una delle serie più di successo (gli Avengers) «una piccola brillante commedia di dialoghi mascherata da qualcos’altro, quel qualcos’altro essendo un gigantesco Bancomat per la Marvel e i nuovi signori degli studios, la Walt Disney Company». Al contrario di quanto succede oggi, secondo Scott tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila il mondo cinematografico produceva film in grado sia di analizzare la società in modo critico, ma anche di spiazzare, innovare artisticamente, far uscire il pubblico dalla sua comfort zone – come i primi film di Quentin Tarantino o Magnolia di P. T. Anderson, per citare due esempi famosissimi. Quei film non sono scomparsi del tutto oggi, dice Scott: sono solo diventati molto più rari. Troppo pochi per nutrire la carriera di un critico.
Il successo delle piattaforme di streaming come Netflix non ha migliorato le cose, aggiunge Scott. Da un lato le serie televisive sono ovvie concorrenti dei film; dall’altro, quando Netflix e le altre società simili hanno comunque investito grosse cifre nella produzione cinematografica, i titoli che ne sono risultati hanno avuto un impatto molto meno minore. Fuori dalle sale o con distribuzioni molto limitate, la loro «presenza culturale» è limitata a chi li va attivamente a cercare o se li vede suggeriti dall’algoritmo in base alle abitudini di visione precedenti. E gli algoritmi sono fatti proprio per evitare i titoli troppo distanti dai gusti dello spettatore, le cose che potrebbero turbare o cogliere di sorpresa.
Parte dell’insoddisfazione del critico americano verrà senza dubbio dalla stanchezza che colpisce prima o poi qualunque carriera, aggravata magari dal fatto che più a lungo si frequentano prodotti artistici e più è difficile provare ancora il fascino della scoperta, imbattersi in qualcosa che appaia davvero del tutto nuovo e originale. E certo c’è un po’ di vita anche fuori dal cinema più mainstream, come ben sanno gli abbonati a Mubi, anche detto “il Netflix dei noiosi”.
Ma credo che ci sia anche dell’altro e che A.O. Scott colga un fenomeno culturale grande e importante, a cui i libri non sono affatto alieni.
Se il lettore curioso entra in una libreria e sfoglia a caso le nuove uscite della narrativa, infatti, potrebbe restare stupito dalla loro uniformità. Di stile, innanzitutto: con poche lodevoli eccezioni, i romanzi che si scrivono oggi (parliamo di quelli italiani, ma il discorso si potrebbe allargare) sono tutti scritti in una lingua media e senza guizzi, corretta e competente senza dubbio, ma anche trasparente e all’apparenza fatta apposta per essere tradotta. Una lingua incolore e con poca personalità, come se gli autori non avessero una propria voce: aprendo a caso dieci romanzi di uguale successo negli ultimi dieci anni e sfidando i lettori a riconoscere lo stile dell’uno o dell’altro autore, scommetto che sarebbe un esercizio quasi impossibile.
E le trame spesso sono fatte con lo stesso stampino: in particolare i problemi di appartenenti alla media o alta borghesia di Milano o di Roma, presentati come se i loro drammi fossero quelli dell’universo intero, e cosparsi di ammiccamenti al solito mondo culturale comune, fatto di americanofilia e serie televisive, musica indie e metropoli europee. Lo spaesamento delle nuove generazioni risolto in filippiche di maniera o in malcelate autocommiserazioni; i problemi individuali elevati a metafore sociali trite e ritrite. La precarietà, i sogni spezzati, l’incapacità di farsi una vita autonoma, d’accordo: ma il compito dell’arte dovrebbe essere trascendere il saggio di sociologia per farne un oggetto autonomo e in possesso di valore in sé, non di suonare come la versione lunga di un bolso editoriale del Corriere della Sera.
Come A.O. Scott nota a proposito dei film, anche nella letteratura si avverte il grande appiattimento: in questo caso non spinto dalla volontà di far cassa delle grandi società con prodotti di sicuro successo, ma da un’avversione al rischio che sembra colpire tutti, autori, editori e lettori, nel paradosso di un’offerta ricchissima e al tempo stesso tutta uguale (al netto di poche lodevoli eccezioni: ma davvero poche, mi sembra). Si scrive sempre di più e sempre meno di interessante? Questo si chiede il lettore alla ricerca di qualcosa che lo stupisca.
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Che sollievo leggere che anche altri, per di più autorevoli e comunque stimati professionisti, hanno avuto la stessa mia impressione (nel mio caso mi riferisco ai film). Dopo tanti anni e migliaia di titoli, non mi riesce quasi più di trovare qualcosa di significativo per me, e spesso preferisco rivedere capolavori già noti che la novità del giorno. "Avrò la puzza sotto al naso"? mi chiedo talvolta. O magari questa passione si è semplicemente esaurita? Sono semplicemente invecchiato e, come spesso accade, mi ritrovo a pensare: "era meglio una volta..."? Ecco, fa piacere sentire qualcun altro con le stesse impressioni. Forse non avrà ragione neppure lui, forse fra vent'anni il livello medio odierno parrà eccelso, chissà, ma se non altro ci si sente un po' meno soli...
Culturalmente, siamo entrati da tempo nella remix culture: si propone sempre di più quello che “sul mercato funziona”.
Quindi si scommette su rimaneggiamenti di vecchi successi. A ritrovarli ci sono studi che dicono che uffa la complessità, e vuoi per questo o quel motivo, la gente che compra, compra sempre di più cose semplici e l’analisi dei testi di libri (in inglese, mi sembra) lo conferma.
Da non molto, il polpettone lo si può produrre anche industrialmente - vedi il link - con tecnologie che già ora dovrebbero farci chiedere cosa è un “libro” oggi, e quindi cosa vuol dire essere un autore o un lettore.
Per esempio, ora è possibile disegnare una storia e far sì che uno dei personaggi parli come una persona che conosco solo io, basta che fornisca i dati necessari a crearne il simulacro,