Nella scorsa puntata ho parlato della lettura della poesia. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Così Nick Hornby comincia Febbre a 90’ (titolo originale Fever Pitch, 1992):
Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé.
L’incipit – che, bisogna ammettere, è invecchiato piuttosto male, ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano – mi è tornato in mente, per motivi che spero saranno chiari più tardi, leggendo il commento lasciato da Stefano Colletti alla scorsa uscita, in particolare questo passaggio: «l'assassinio della poesia, colpevole di aver allontanato milioni di persona da qualsiasi desiderio di leggerne mai più, è la scuola». Il lettore accanito si potrebbe chiedere, in effetti, quali e quante responsabilità abbia il sistema educativo nel fatto che la poesia sia poco considerata.
Azzardo alcune riflessioni, disordinate e confuse come sono i miei pensieri sul tema. La prima: che la poesia – ma anche la letteratura in generale – sia una cosa buona in sé, che valga la pena preservare e promuovere, è premessa del nostro ragionamento su cui penso che tutte le lettrici e i lettori di queste righe siano d’accordo, perché altrimenti non si infliggerebbero i pensierini di un dilettante ogni sabato mattina, ma non è una premessa autoevidente. In altre parole, andrebbe dimostrato, e non mi sono mai imbattuto in una dimostrazione plausibile, che la letteratura sia un bene in sé e abbia un qualche valore etico, ad esempio rendendo in qualche modo le persone migliori.
Ho sempre trovato questo approccio uno dei rassicuranti e consolatori luoghi comuni che si ritrovano nelle aule scolastiche, insieme a «il latino insegna a ragionare» e a molte altre simili. Non regge però a un esame approfondito. In primo luogo perché ho conosciuto fior fiore di critici e studiosi umanamente deprecabili, tuttora saldi ai primi posti nella classifica delle persone più sgradevoli, stupide o disoneste che abbia mai incontrato. Si può escludere senza troppi patemi che chi studia le lettere sia solo per questo una persona migliore. In secondo luogo perché, al di là delle conoscenze pratiche necessarie per far funzionare un mondo complesso come il nostro, tutto il resto della nostra istruzione (ed è la gran parte) è una serie di nozioni ritenute importanti dalla tradizione e dalla cultura, ma sospetto che in realtà lo studio di letteralmente qualsiasi cosa, negli anni della formazione, sia utile a sviluppare la capacità di effettuare ragionamenti complessi.
Anni fa lessi chissà dove, e mi piace pensare che sia vero, che la classe dirigente dell’impero cinese, ben oltre le soglie dell’età moderna, veniva reclutata con un concorso che valutava solo l’abilità nella calligrafia e la conoscenza degli insegnamenti di Confucio. A una lettura superficiale si potrebbe pensare a un folle rifiuto della modernità, utile a spiegare la decadenza della Cina ai primi decenni dell’Ottocento (quando le potenze europee arrivarono a sfruttarla secondo i più spietati meccanismi coloniali). A me è sempre sembrato una riprova dl fatto che l’oggetto dello studio non è tanto importante, quanto l’azione di studiare in sé. Che poi sia le letteratura, gli insegnamenti di Confucio, gli scacchi, come funziona una caldaia o le astrazioni della matematica non è così importante.
Ma assumiamo che studiare la letteratura abbia un valore in sé. Di certo ha un valore storico e culturale, perché per diverse centinaia di anni la nostra società europea – come diverse altre, ma assolutamente non tutte – ha assegnato grande importanza alla capacità di scrivere poesie (romanzi o racconti sarebbero arrivati molto dopo: semmai, per molto tempo l’altro genere principe era il teatro). Ammettiamo dunque che sia giusto o necessario insegnarla, in quanto parte importante del nostro passato collettivo.
Come insegnarla, dunque? Per rendere la letteratura una cosa viva, e non soltanto una successione di suoni e figure, c’è bisogno di affrontare la questione del suo valore estetico, ovvero l’idea di bellezza nella creazione artistica. Mi rendo conto di avanzare qui un pensiero del tutto fuori moda, quasi reazionario, ma a mio modesto avviso l’unico motivo per cui ha davvero senso leggere una poesia o un romanzo è per il piacere estetico che tale attività produce. Altrimenti basterebbe leggerne un riassunto.
Ciò porta però a una serie di conseguenze piuttosto spiacevoli. La prima è che il valore estetico di un’opera d’arte sia qualcosa di razionalmente definibile, il punto di arrivo di una serie di valutazioni discrete, come se fosse un ragionamento logico: siccome le parole sono disposte in questo modo, i suoni sono scelti in un altro modo, le immagini e il messaggio sono così… allora questa poesia (o questo romanzo) ha un valore (è bella).
La critica letteraria è un plurisecolare sforzo di dimostrare questo fatto indimostrabile. Continuando con le opinioni che so essere inattuali, l’unico valore dell’opera d’arte risiede nel giudizio estetico logicamente inspiegabile e – non vorrei suonare mistico – in sostanza inesprimibile del lettore. Esiste un’infinità di approcci teorici all’analisi dei testi letterari, da quello strutturalista a allo stilistico, da quello storico-sociologico a quello neurologico. Tutti insegnano qualche cosa e, al loro meglio, aprono prospettive interessanti per la comprensione del testo. Nessuno mi ha mai dato l’impressione di cogliere l’essenza della bellezza di un testo letterario. Il punto è che l’unico giudizio veramente onesto su una poesia, al di là delle analisi, coincide con il dire soltanto che è bella perché è bella.
In una classe bisognerebbe forse soltanto leggere senza aggiungere nulla. Se ciò non è possibile non è tanto o non solo per limitazioni vocali dell’insegnante o di attenzione degli studenti, ma per un motivo più sconfortante. Non vi è infatti alcuna certezza che una persona – come ad esempio uno studente – percepisca il valore estetico di un’opera d’arte, come ha provato a convincerci lo svenevole L’attimo fuggente. La capacità o meno di apprezzare una poesia non dipende da alcuna altra caratteristica dello studente: né dalla sua intelligenza né dal suo grado di istruzione né dalla sua sensibilità personale. Se un racconto non suscita nulla, non è che sia sbagliato lo studente o sbagliato il racconto: l’universalità del valore estetico è un altro dei luoghi comuni consolatori che devono esistere perché un insegnamento dell’arte possa avvenire, ma anche in questo caso si tratta di una pia illusione.
In breve, l’amore per le lettere è come quello per il calcio di Hornby: improvviso, inesplicabile, acritico. Il protagonista di Stoner (libro straordinario di cui parlammo in una vecchia uscita) arriva alla letteratura tramite un corso universitario, altri ci arrivano perché si annoiavano in una casa per le vacanze che, per caso, aveva qualche libro su uno scaffale, altri ancora perché via via si appassionano a qualcosa di imposto (anche, perché no, in un’aula scolastica). Ma bisogna ammettere che tanti non ci arriveranno mai e che questo non è né un male né una colpa. Parafrasando il Manzoni: l’amore, uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare.
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Io credo che sia possibile, ma ad una condizione: bisogna emozionare. E per farlo sono necessari corsi di teatro per insegnanti e operatori culturali. Si dovrebbe partire dall'analisi delle "emozioni" e poi via via dirigersi verso quella del testo.