Nella scorsa puntata ho parlato del grande appiattimento dei prodotti culturali. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Il passeggero di Cormac McCarthy (Einaudi, 2023, 392 pp.; titolo or. The passenger, 2022) è un bel libro per gli stessi motivi per cui La strada, il suo precedente (Einaudi, 2007, 218 pp.), era un grande libro. I limiti de Il passeggero sono però numerosi e vengono dall’ambizione dell’autore.
Per molti scrittori dalla lunga e prolifica carriera c’è una fase finale che produce libri particolari: libri che concentrano le caratteristiche essenziali della loro scrittura e visione del mondo, di solito più brevi, spesso percorsi da una vena malinconica o riflessiva. La vitalità dei libri più celebri è lontana, così come la loro originalità, ma nel migliore dei casi si tratta di piccole piacevolissime gemme, che esprimono bene il senso del loro percorso letterario. Ne sono un esempio Indignazione di Philip Roth, pubblicato quando l’autore aveva 75 anni, Il viaggio dell’elefante di José Saramago, uscito con lo scrittore 86enne, o ancora le ultime raccolte di Borges.
Con La strada McCarthy, che ha 89 anni, aveva fatto un libro del genere. E l’ambientazione de Il passeggero, tutto sommato, ha diversi punti di contatto con il precedente: un mondo desolato e dai tratti apocalittici – è buio, piove, fa freddo – popolato di personaggi allo sbando, solitari, mezzi matti. C’è un’atmosfera crepuscolare e riflessiva, che nella seconda metà ricorda quella di un film di Terrence Malick. Ma invece di un libro raccolto e dritto al punto, da crepuscolo dello scrittore si potrebbe dire, Il passeggero è un’opera di tutt’altro passo, che finisce però per scappar di mano.
La trama, in due parole: il protagonista, Bobby Western, incappa in apertura in un mistero da thriller e presto viene perseguitato in un modo illogico e misterioso che richiama a tratti Kafka. Si lancia quindi in una serie di peregrinazioni inquiete, perseguitato dal ricordo della sorella Alicia. Di lei seguiamo in parallelo, con una serie di flashback, le visioni e gli ultimi tempi prima della tragica fine.
Lo stile è solenne e aspro, spesso paratattico, con largo uso di termini tecnici (nel trattare l’esplorazione subacquea, come è fatta una piattaforma petrolifera, e così via) e una certa passione nel descrivere in dettaglio scene usuali e quotidiane, in violazione della regola elementare secondo cui non c’è bisogno di ricordare che un personaggio, dopo essersi svegliato, si è lavato i denti, almeno se ciò non ha qualche significato per caratterizzare il personaggio stesso o qualche rilevanza per la trama (se nel frattempo la casa è in fiamme, ad esempio, la scelta di lavarsi i denti appena sveglio è un’azione rivelatrice di qualcosa). E se proprio lo si fa, non c’è bisogno di descrivere passo passo come si apre il dentifricio. È una regola base della scrittura che McCarthy viola spesso e volentieri, ad esempio in una frase come (p. 157, qui e di seguito nell’ed. inglese, trad. mia): «Lasciò la borsa nell’armadietto e aprì il lucchetto e spinse la saracinesca sui suoi cardini e accese l’unica lampadina». Lo fa perché può e perché gli riesce il più delle volte senza risultare noioso, come hanno notato giustamente le autrici del podcast letterario Comodino (che ha dedicato l’ultima puntata anche a Il passeggero e che vi consiglio).
Qualche volta però lo stile tradisce l’autore e ci sono passaggi di terribile comicità involontaria. Ad esempio questo (p. 146):
I fondatori della meccanica quantistica – Dirac, Pauli, Heisenberg – non avevano nulla a guidarli se non un’intuizione su come il mondo sarebbe dovuto essere. Cominciando a una scala che a stento si sapeva che esistesse. Qualche anomalia spettrale. Che cos’è quella? Oh, è un’anomalia. Un’anomalia. Sì. Beh. Che cazzo dici. Einstein ha lavorato con Boltzmann?
Che nel lettore potrebbe suscitare la reazione un po’ spazientita, da vecchia zia: va bene, però non c’è bisogno di dire le parolacce. O peggio ancora questo, il cui protagonista è Bobby (p. 177):
La notte era fredda. Così silenziosa. Aveva mangiato tutta la carota tranne il gambo. Poi mangiò anche quello. Terroso e amaro. Così amaro. Salì al piano di sopra e andò a dormire.
L’unico modo per salvare questo passaggio, che mi ha fatto ridere non con l’autore ma dell’autore, sarebbe stato forse con l’ironia, ma io non ne ho percepito neppure un briciolo. Abbiamo capito che la tua vita è amara Bobby, non serve che mangi anche il gambo della carota!
Stile e amarezza vegetale a parte, c’è poi l’aspetto tematico, dove domina la scienza. I fratelli Western vi sono in vario grado portati: Alicia è una matematica prodigiosa, un genio precocissimo, mentre Bobby è un fisico di formazione, per quanto molto meno talentuoso della sorella. Nel tempo libero, Bobby – che quando lavora, il che non è spessissimo, fa il sommozzatore – legge Il leviatano di Hobbes. Questo interesse per la filosofia, ma soprattutto per la matematica e la fisica, riflette con ogni probabilità l’esperienza personale dello stesso McCarthy, che da una decina d’anni collabora – unico non scienziato, pare – con un centro di ricerca multidisciplinare del New Mexico, il Santa Fe Institute.
Ricordo di aver letto una sua vecchia intervista in cui parlava di ore e ore di discussione con grandi esperti di fisica quantistica: ne Il passeggero traspare infatti una visione della scienza – e più precisamente degli enormi passi avanti in alcuni campi come la fisica nucleare o la matematica della prima metà del secolo scorso, prospettiva di per sé già un po’ âgée – come una sorta di sapere mistico in grado di attingere a un livello di realtà superiore.
È chiaro che McCarthy, avvicinatosi a questi temi da adulto, non può che esserne un dilettante, per quanto interessato, e infatti il suo sguardo è pericolosamente vicino a quello di un adolescente un po’ esaltato. McCarthy prova a più riprese, ma fallisce ogni volta, a convincerci che la conoscenza di qualche astrusa teoria matematica o delle sottigliezze della fisica quantistica siano la strada verso una sorta di illuminazione.
Così come non è del tutto chiaro il senso delle visioni di Alicia. Sono pagine di dialoghi davvero brillanti, che mostrano un’abilità tecnica straordinaria (in generale McCarthy scrive splendidi dialoghi, anche se parlano tutti come dei geni o dei duri di un western). Ma rimane il problema di fondo che le visioni e gli inserti onirici sono espedienti narrativi difficili da far funzionare in modo efficace nell’economia di un romanzo, e anche qui, in cui hanno un ruolo centrale, suonano per lo più come passi falsi. Il loro senso nella costruzione generale del libro sfugge, se non per mostrare l’interiorità del personaggio femminile, che però si poteva ottenere con mezzi meno dispendiosi.
Il rapporto di Alicia con Bobby è un altro dei temi centrali del libro e regala – insieme a qualche interazione di Bobby con diversi personaggi secondari, di solito matti da legare – diversi dei passaggi migliori. Ma anche qui si ha l’impressione che l’autore non sfrutti al meglio quello che mette sul piatto e persino quel nodo cruciale si annacqua in mezzo a mille altri. Alla fin fine è una questione di ambizione: se si mette in campo un intrigo del deep state, il progetto Manhattan, una vita avventurosissima, una serie di traumi, un genio scientifico, il problema della salute mentale, le grandi verità sull’universo, si mette l’asticella piuttosto in alto. Prendiamo questo passaggio, riferito a Bobby (p. 165):
Che le forze della storia ad aver introdotto la sua vita complicata nel grande arazzo dell’esistenza fossero quelle di Auschwitz e Hiroshima, gli eventi gemelli che hanno sigillato per sempre il destino dell’Occidente.
D’accordo Hiroshima, perché il padre dei Western era un fisico del progetto Manhattan e il tema ritorna a più riprese: ma c’era davvero bisogno di tirare in mezzo anche Auschwitz? Il libro ha già abbastanza gravitas di suo. Quando si ambisce a esprimere grandi verità su tutto quanto in modo così scoperto è facile deludere o non risultare all’altezza. Si potrebbe dire che Il passeggero sia un bel libro che sbaglia tutte le cose importanti.
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