Dove eravamo rimasti? Nella scorsa puntata ho parlato dei luoghi dove si decide la cultura letteraria. Se siete nuovi qui, ecco una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che trovi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. E infine, se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, il sabato, cliccando qui.
C’è un pensiero che mi accompagna da molto tempo e di cui non riesco a trovare una spiegazione soddisfacente. Trovo inconcepibile, in qualche oscuro modo una violazione dell’ordine naturale delle cose, quando una persona si presenta come scrittore o scrittrice, e addirittura osceno il commento de “i miei libri”, “la mia letteratura”. Sentire poi una persona leggere le proprie opere su un palco, commentarle persino! Azioni fuori luogo, irrimediabilmente sbagliate.
Tanto più che sentire un’opera letta dallo scrittore (o dal poeta) può avere effetti davvero stranianti, se non addirittura comici. Certo ci sono casi in cui l’interpretazione dell’autore esalta il testo e il più celebre è forse Dylan Thomas che legge la sua Do not go gentle into that good night, pieno di energia trattenuta a stento, la voce vibrante, poi declamatoria, poi placata nel finale.
Oppure, all’opposto dello spettro emotivo, l’interpretazione piana ma forse anche per questo efficacissima della poesia Yesterday da parte del suo autore, lo statunitense W. S. Merwin.
Ma perfino un’operazione semplice come la lettura sente il passare del tempo, il cambiamento delle consuetudini e forse perfino delle mode. Qui sotto potete sentire Guillaume Apollinaire leggere la sua splendida poesia Le pont Mirabeau. Il documento audio è straordinario (si ritiene che la registrazione risalga al 1913 circa) ma il risultato alle orecchie di un contemporaneo è un po’ ridicolo: le pause sono accentuate in un modo che a noi appare stonato, l’intonazione è monocorde e perfino piagnucolosa. Forse Apollinaire aveva un eloquio particolarmente lamentoso, forse entrano in gioco altri aspetti culturali (l’espressione esteriore dei sentimenti è uno degli aspetti più mutevoli attraverso le epoche e le aree geografiche).
E fin qui stiamo parlando solo di letture dei propri scritti. Passando al commento, i rischi sono ben peggiori. Se un autore o un’autrice deve spiegare il senso di quanto ha scritto, perché troppo oscuro, ha sbagliato qualcosa. Se invece gli fornisce un contesto o un commento, si tratta nel primo caso di notazioni biografiche o culturali forse interessanti ma certo non necessarie, e nel secondo di un parere come un altro. I testi parlano da soli.
Quanto vi aggiunge chi li ha scritti può avere un interesse in sé – come il saggio di Edgar Allan Poe The Philosophy of Composition, che non è tanto un compagno alla lettura di The Raven quanto un notevole documento sull’ispirazione poetica e la scrittura in generale – o più spesso risultare un caso più o meno grave di mitomania, come quando gli autori si lanciano in quelle insopportabili tiritere su perché quanto hanno scritto è importante, porta alla ribalta un fenomeno dimenticato, dà voce a chi non ce l’ha, e via blaterando. Ma l’assunto che l’autore abbia qualcosa di utile da dire su quanto ha scritto è di per sé fallace.
C’è poi la questione professionale. Identificarsi come “scrittori” mi è sempre suonato un’enormità, anche se il motivo non riesco davvero a metterlo a fuoco. Forse perché chi davvero campa dei libri che scrive è una minoranza risibile, e dunque l’etichetta è spesso una generosa esagerazione? Ma io non sono un commercialista, non dovrebbero interessarmi le quote di reddito. Più probabile che sia perché il valore di un’opera non può venire da chi l’ha scritta e dunque attribuirsi l’etichetta di scrittore è invariabilmente una dichiarazione di immodestia. Se quanto viene scritto ha qualche valore lo può dire solo qualcun altro e darsi il titolo da soli è dunque un’arroganza? Lascio il quesito aperto.
Resta il fatto che lo scrittore mi appare una figura impossibile. A malapena un autore potrà dire a mezza voce, sussurrando: questo l’ho scritto io, ma sarà per notare una mera coincidenza, registrare un irrilevante fatto meccanico o biografico. Meglio dunque non dire nulla, osservando dall’esterno, e in disparte, la strada che l’opera trova da sé nel mondo, e senza certo accampare alcun diritto di parola o di prelazione nel commento. La persona-autore non deve avere voce.
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La scrittura è una forma di comunicazione, e la comunicazione passa attraverso la pubblicazione e la vendita nelle librerie. La vendita, purtroppo, richiede compromessi come presentazioni del romanzo, pubbliche letture, firme di copie e, nei casi più fortunati, passaggi in televisione. Sono le regole del gioco, e valgono per tutti, salvo pochi fortunati che sono già famosi. Altrimenti, si rimane senza lettori. Però si può cercare di farlo con modestia e noncuranza, e parlando il meno possibile di se stessi.
Ciao! Intanto, ci tengo a dirti che apprezzo sempre molto quello che scrivi qui e leggo sempre con molto piacere.
La questione sull'impossibilità del dirsi scrittori la trovo molto interessante e condivido anche in parte quello che sostieni. Sono cose su cui mi interrogo molto perché io ad esempio scrivo e non riesco mai, almeno per ora, a definirmi scrittore (me lo dicono più spesso gli altri ma io provo imbarazzo).
Ultimamente rispondo alla questione così: si chiarisce tutto se assimiliamo la professione dello scrittore a quella di altre forme artistiche (pittore, scultore, musicista, ecc.). Lo scrittore è tale non per hobby, ma se è riuscito a creare un proprio percorso coerente guidato dai propri risultati (cosa scrive, cosa pubblica e come). La questione del riconoscimento economico certamente conta - motivo del mio attuale imbarazzo - ma non ne farei una prerogativa necessaria (se guardassimo a chi vive o ha vissuto di libri Fabio Volo sarebbe uno scrittore, Kafka no). Se quel percorso artistico procede con onestà e risultato, gli altri ti riconosceranno come tale. E quindi, potrai dirti scrittore in modo possibile. Spero di essermi spiegato, se ci sarà mai modo sarebbe bello parlarne.
Luca