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Mi piacerebbe un giorno scrivere qualcosa sui libri che abbiamo irrimediabilmente perduto, un’idea che mi venne quando, preparando l’esame di letteratura latina all’università, mi imbattei in un poeta di nome Cneo Nevio di cui, nonostante fosse considerato uno dei più grandi del suo tempo e avesse scritto decine e decine di opere teatrali, non ci è rimasto nulla, fuori da qualche verso citato da altri autori.
Quei testi perduti sono ancora più affascinanti dato che la loro esistenza ci è nota da quanto ne dissero altri, che li ritennero evidentemente degni di essere ricordati: sono insomma known unknowns, cose che sappiamo di non sapere. Senz’altro ci saranno tanti poetastri e scrittorucoli che abbiamo perduto senza che essi lasciassero nessuna traccia, ma in quel caso siamo davanti a unknown unknowns, ovvero cose che non sappiamo neppure di non sapere, e dunque le loro sono opere che a tutti gli effetti non esistono.
Sto leggendo un libro che tratta, in modo assai originale, il tema della non esistenza, anche se qui si tratta di animali e non di tragedie. Si chiama La malinconia del mammut. Specie estinte e come riportarle in vita (Il Saggiatore, 2019) e l’autore, Massimo Sandal, si confessa un «fan delle creature sfortunate e oscure» (p. 100). Prima di procedere, una dichiarazione sul conflitto di interessi: conosco Massimo perché collabora con un progetto di fact-checking che dirigo ed è autore di molti ottimi articoli nella sua sezione Storie, ma vi assicuro che questa recensione non mi è stata commissionata, né ho ricevuto, per scriverla, denaro o altra utilità.
Il tema del libro è quello delle grandi estinzioni nella storia del nostro pianeta: la scomparsa dei dinosauri, la più celebre, è infatti solo una delle tante catastrofi che hanno colpito gli abitanti della Terra e, come ho scoperto leggendo il libro di Massimo, neppure la più grave. Il primato va a un’altra avvenuta circa 190 milioni di anni prima del famoso asteroide, quella del Permiano-Triassico, che spazzò via il 90 per cento delle specie marine, il 70 per cento di quelle vertebrate terrestri, e persino un bel numero di insetti.
Un evento così disastroso da arrivare non troppo lontano da cancellare tutta la vita complessa sul nostro pianeta. Saremmo potuti diventare come Venere, scrive l’autore in una delle pagine (finora) più affascinanti e liriche del libro: se gli sconvolgimenti planetari si fossero spinti un po’ più in là, o fossero durati un poco più a lungo, magari sarebbero diventati irreversibili e la Terra sarebbe diventata uno dei tanti pianeti inabitati in orbita intorno al Sole. Tra l’altro, non abbiamo neppure un’idea troppo chiara di come si sia svolta l’estinzione e quali siano state le sue cause, anche se dovettero aver contribuito una catena di eruzioni vulcaniche su una scala che non riusciamo neppure a immaginare – letteralmente continentale.
Ma ho già parlato qualche settimana fa di civiltà scomparse e non vorrei far diventare questa mia lettera settimanale né monotematica né deprimente: l’altro aspetto di interesse del libro, infatti, è la descrizione della straordinaria varietà e diversità di forme di vita che ci sono state, diciamo così, tra un’estinzione e l’altra. Alcune sono enigmatiche e ormai irrimediabilmente sconosciute come le tragedie di Nevio: la mia preferita finora è l’insieme di forme di vita chiamate collettivamente con il nome di fauna di Ediacara, che spadroneggiava sul pianeta fino a circa 540 milioni di anni fa.
Una serie di esseri viventi ricchissima e varia, che c’entra poco o nulla con la vita come la conosciamo oggi, e soprattutto con alcune caratteristiche che ci sembrano piuttosto strane da visualizzare e da spiegare in base a quanto sappiamo della biologia dei tempi più recenti. Ad esempio il fatto che alcuni di quegli animali, da quanto sappiamo, non avessero organi interni come l’apparato digerente, né bocche, né apparati riproduttivi, ma al contrario si presentassero con bizzarre simmetrie che ricordano quelle di certe stelle marine; e se non ricordo male ci potrebbe essere stato anche qualche ediacaro persino asimmetrico, il che dà al tutto un sapore tra Lovecraft e Borges.
Naturalmente le informazioni in nostro possesso sono assai scarse e su come spiegare i pochi dati disponibili le interpretazioni sono molte e discordanti. La fauna di Ediacara è scomparsa lasciando solo alcuni fossili – il primo dei quali peraltro riconosciuto con certezza soltanto negli anni Cinquanta. Ma il filo conduttore delle estinzioni permette a Massimo di fare una specie di cavalcata attraverso tutte le epoche del nostro pianeta e la straordinaria varietà dei suoi abitanti passati. La curiosità che anima il libro è il suo tratto più affascinante e dietro l’abilità di far visualizzare bestie da cui ci separa una distanza temporale difficile da concepire si legge una vera passione (oltre che una notevole competenza).
La divulgazione scientifica, tra l’altro, è sempre un terreno ostico, perché è facile trovare autori che banalizzano il loro argomento – scrivendo testi di fatto inutili, perché troppo superficiali – oppure al contrario che non riescano a spiegare in termini semplici e coinvolgenti temi complessi, il che di fatto li rende libri da iniziati. La malinconia del mammut non fa nessuno dei due errori. È scritto davvero bene. Se volete fare un vero viaggio nel tempo, e allo stesso tempo imparare parecchie cose sulle storie oscure e straordinarie della vita sulla Terra, è il libro che fa per voi.
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