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L’altra sera stavo ascoltando una puntata dell’ottimo podcast Throughline. Si parlava della traumatica e misteriosa fine dell’Età del bronzo nel Mediterraneo orientale (la puntata si può ascoltare qui). L’ospite era Eric Cline, di cui qualche anno fa avevo letto l’affascinante libro 1177 B.C.: The Year Civilization Collapsed (pubblicato in italiano da Bollati Boringhieri).
La storia è questa: circa tremiladuecento anni fa, il bacino mediterraneo era da più di tre secoli un luogo di scambi commerciali, diplomazia, incontro-scontro di grandi potenze, come l’impero egizio e quello degli Ittiti. Il livello di interconnessione tra le diverse parti del mondo era sorprendente: c’erano risorse strategiche (lo stagno, necessario a produrre il bronzo), una lingua franca delle relazioni internazionali (l’accadico) e reti mercantili che andavano dall’Egitto alla Mesopotamia, da Creta alla Palestina.
Poi una serie di eventi dai contorni indefiniti, che si svilupparono nell’arco di alcuni decenni, portò alla fine traumatica delle strutture politiche, sociali, culturali: dalla Grecia all’Anatolia alla Palestina scomparvero le città, finì il commercio, e di alcune lingue, come quella micenea, si perse quasi ogni traccia.
Ci sono molte ipotesi per spiegare il disastro. La più diffusa fino a qualche tempo fa era quella delle invasioni dei cosiddetti “popoli del Mare” – la cui provenienza è avvolta nella nebbia – ma Cline e altri propendono invece per una serie di catastrofi naturali, dai cambiamenti del clima a una serie di devastanti terremoti.
Il disastro deve essere stato evidente per tutti gli abitanti del tempo nelle vaste regioni del Mediterraneo orientale. Tra i resti delle potenti città-stato della regione gli archeologi hanno trovato tracce di incendi devastanti. I re ittiti inviavano lettere disperate ai faraoni chiedendo l’invio di carichi di grano. Una missiva riportata da Cline si conclude con la frase: «È una questione di vita o di morte». Un mondo arrivava alla fine in modo traumatico e violento.
Nella storia recente ci sono stati altri disastri che, agli occhi dei protagonisti, non devono essere sembrati molto diversi. Sto leggendo The Inconvenient Indian di Thomas King, un libro che ripercorre la storia dei nativi americani. L’autore stesso è un nativo, e raccontando di trattati ignorati, terre rubate, bambini tolti alle famiglie, riparazioni negate, razzismo, violenze, in breve del lento e continuo sopruso che i popoli nativi americani hanno subito per centinaia di anni, venendo decimati e ridotti a una minoranza tra le più ignorate e abbandonate, le sue parole oscillano tra l’ironia amara e la rabbia di chi assiste impotente a una catastrofe.
Sia gli uomini dell’Età del bronzo che i nativi americani si sono accorti di quanto stava loro accadendo. Spettatori più o meno impotenti della fine della loro epoca, della loro civiltà. Una sensazione collettiva, del tutto aliena – e questo è il punto – dal nostro usuale modo di concepire il nostro destino come genere umano come una progressione verso un futuro che sarà migliore. Saremo più sani, più ricchi, vivremo più a lungo.
La visione della Storia come una linea retta – tra parentesi, esiste anche un libro dedicato alla storia della linea del tempo, la timeline insomma – è nei fatti connessa, con quella moderna di progresso. Chi vorrebbe pensare una linea retta verso il disastro? Pensare la Storia come una retta orientata implica una visione ottimista del tempo.
Esiste certo una visione alternativa, propria ad esempio dell’approccio tradizionale alla storia cinese: quella di considerare invece la Storia come una successione di cicli, alcuni caratterizzati da benessere e progresso, altri da instabilità e cambiamenti traumatici. Per quanto sia aliena alla visione occidentale degli ultimi due o tre secoli, quella visione ha mantenuto la sua presenza anche nella cultura europea, da Platone a Nietzsche. La più affascinante espressione letteraria che ne conosca è in alcuni saggi di Borges, ad esempio in Storia dell’eternità.
La mia generazione, si sa, sarà la prima da molti decenni ad avere a disposizione meno risorse rispetto ai propri genitori. Una malattia diffusa in tutto il mondo, quest’anno, ha congelato l’economia globale per mesi interi. Ascoltando il podcast su quelle antiche storie di disperazione e oblio, pensando alla tragedia dei nativi americani, mi sono immaginato la possibilità che anche il nostro mondo, in un futuro forse prossimo forse lontano, vada incontro a una catastrofe.
Il nostro mondo è tenuto insieme da fili sottili: le reti che reggono Internet, la nostra economia dei servizi, la pace tra le grandi e piccole potenze che dura da un inedito periodo di tempo. Non mi è stato difficile pensare a qualcuna delle tante cose che potrebbero andare storte. Come esseri umani, abbiamo già affrontato tante volte la fine di imperi, culture, lingue, economie. Così tante che forse è ingenuo pensare che non ce ne saranno ancora. Tra qualche decennio, o qualche secolo, la speranza sarà che la Storia sia davvero circolare e che un giorno ritorni l’età dell’oro.
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