Nella scorsa puntata ho parlato di tempi interessanti. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Mi sto dedicando a una serie di letture a tema medievale. In questi giorni è una raccolta di saggi curata dal grande storico Jacques Le Goff, L’uomo medievale (pubblicato nel 1987 da Laterza e poi più volte ristampato). Mi è sorta la domanda sul perché esistano molti titoli simili ma quasi nessun Il suddito del Faraone o L’abitante di Augusta Treverorum.
Per noi occidentali del Ventunesimo secolo ormai inoltrato, il periodo storico più affascinante, quello che percepiamo più lontano e misterioso, quello che più spesso compare in libri o film quando è necessario mettere in scena un mondo distante nel tempo e non solo è senza dubbio il Medioevo. Molte dei film, dei libri, delle serie Tv oggi di maggior successo – basti pensare al Trono di spade o al Signore degli anelli – prendono ispirazione più o meno prossima da quel periodo storico.
Certo si tratta di un Medioevo indefinito, in larga parte inventato: dopotutto parliamo di quasi mille anni di storia, che ha coinvolto (almeno) tutta l’Europa occidentale e ha avuto una straordinaria varietà di espressioni. Del Medioevo fanno parte sia il difficilmente immaginabile regno visigoto nella penisola iberica, nel VI o nel VII secolo, che la costruzione della cattedrale di Notre-Dame a Parigi; sia le vette della filosofia scolastica che i primi stentati documenti scritti nelle future lingue nazionali della Francia o dell’Italia; sia le campagne spopolate e devastate dalla guerra greco-gotica che Venezia metropoli con il triplo degli abitanti di oggi.
Ma nel nostro immaginario, alcuni elementi che richiamano all’istante il Medioevo. L’onnipresenza della religione, per esempio, oppure una struttura sociale rigida e gerarchica, o ancora la scarsità di tecnologia, il paesaggio fatto di castelli, le armature. Basta una merlatura e il saio di un frate e siamo già catapultati all’indietro di una decina di secoli. E non è solo questione di cultura popolare: anche negli studi accademici il Medioevo ha prodotto una quantità spropositata di libri e articoli che provano a capire la mentalità dell’«uomo del Medioevo», più che per qualsiasi altra epoca.
Eppure non è meno affascinante provare a capire che cosa passasse per la testa di un antico romano. Meno spesso, tuttavia, sembriamo interessarcene. Esiste ovviamente qualche libro celebre anche a quel proposito – mi viene in mente I greci hanno creduto ai loro miti? di Paul Veyne e una serie di libri sulla vita quotidiana nell’antica Roma che mi prestò un amico molti anni fa – e non essendo un grande conoscitore del mondo classico mi sarò perso molto di importante. Mi sembra indubbio però che qualcosa d’istinto ci porti a trovare meno misterioso, paradossalmente, un abitante dell’Impero romano nel terzo secolo dopo Cristo piuttosto che un suddito di Carlo Magno seicento anni dopo.
Si potrebbe rispondere che esistono alcuni limiti materiali, dato che sulla vita delle persone in età antica non sappiamo nulla o quasi e dunque pochissimo possiamo capire dei loro pensieri e della loro vita quotidiana. Ma d’altra parte l’interesse è imparagonabile anche all’altro estremo dello spettro cronologico. Carlo Ginzburg ha raccontato il mugnaio Menocchio nella seconda metà del Cinquecento nel suo celebre Il formaggio e i vermi, e qualche altro esempio mi sfuggirà sicuramente, eppure di nuovo mi sembra che l’uomo (e le donne) dopo la fine del Quattrocento di affascinino di meno, ci sembrino istintivamente più vicini. «Che cosa pensava un uomo nel Settecento?» suona domanda esclusivamente da specialisti.
Il discrimine sta, ovviamente, nel diverso rapporto con la razionalità. D’altra parte la scuola ci racconta di un Rinascimento in cui avviene una rivoluzione: il ritorno dell’essere umano al centro del mondo dopo tanti anni sotto il giogo della religione, la riscoperta dei classici, di lì a poco la rinascita del metodo scientifico. Una frattura netta, come la descrivono alcuni degli studi più famosi sul tema, e anche se qualche timido ripensamento è arrivato nei decenni successivi a Medioevo e Rinascimento di Eugenio Garin – in cui quella frattura è esposta, difesa, direi quasi celebrata – l’alterità del Medioevo è una parte importante del modo in cui pensiamo al passato.
Il Medioevo ci attira perché è l’epoca della magia contrapposta alla scienza, della religione contrapposta alla razionalità, della società gerarchica contrapposta alla democrazia. O almeno così ce lo immaginiamo, al di là (molto al di là) di come fosse in realtà. In esso ritroviamo una parte di noi che abbiamo deciso di rimuovere e a volte di rifiutare, anche se poi magari leggiamo l’oroscopo e pensiamo che sarebbe meglio se non votassimo tutti. Parafrasando la frase su Berlusconi resa celebre da Gaber, non mi attira il Medioevo in sé, mi attira il Medioevo in me.
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Per chi ha assimilato l'antropologia di Renè Girard, la risposta potrebbe condensarsi così: il Medioevo è stata l'ultima epoca storica in cui ha prevalso la "mediazione esterna", quando nessuno del popolo poteva anche solo immaginare di potersi paragonare a chi socialmente aveva il monopolio del potere e della forza, insomma il potere di decidere (che significa proprio tagliare la testa). Poi, paradossalmente proprio grazie alla sempre maggiore estensione e fruttuosità dell'apocalisse (disvelamento) generata dal messaggio evangelico (agli occhi di Dio siamo tutti carnefici come Caino e vittime come Abele), la mediazione è divenuta di epoca in epoca sempre più "interna" con il conseguente scatenamento della violenza e dei conflitti generati dall'invidia tra individui, gruppi sociali e stati, invidia nutrita da chi si sente "mancante" nei confronti di colui che egli vede come "modello" e, quel che è più importante, non più irraggiungibile come nella mediazione esterna. Da Madame Bovary che sogna di poter frequentare gli ambienti altolocati fino a Jean Sorel ed ancora a Swann che dalla loro reale frequentazione traggono la propria linfa vitale e fino infine all'eterno marito di Dostoevskij. Tutto in un gioco di continua imitazione e rimandi comportamentali. Fulgida riprova della nostra lontananza dal Medioevo e, soprattutto, della nostra incapacità assoluta di leggerlo come post-post-moderni ne sia che, per esempio, non riusciamo proprio a farci un ragione del motivo per cui Dante ha posto all'Inferno Francesca, noi come lei ingannati dal "desiderio mimetico". Francesca per noi è un'eroina romantica. Francesca per Dante altro non era invece che la vittima di un amore integralmente "copiato" dalla storia di Lancillotto ("...e da quel giorno più non vi leggemmo avante") e come tale assolutamente non spontaneo perchè indotto dal Desiderio e non da Amore. Girard, tra gli altri meriti, ha avuto quello di lasciarci questa osservazione folgorante, pertinente alla distanza tra noi ed il Medioevo (ma non nel senso che ci potremmo immaginare): "Gli uomini non hanno smesso di dare la caccia alle streghe perchè hanno inventato la scienza, ma hanno inventato la scienza perchè hanno smesso di dare la caccia alle streghe". Proprio come nella fisica quantistica, la verità si presenta agli uomini sempre come controintuitiva.
Vero, il medioevo è un livello del videogioco dell’io, quello disponibile su una certa console culturale.
Il nome del livello è Il nome della rosa, e il conflitto è primordiale, da biblioteca del tempo o bagno di oggi.