Nella scorsa puntata ho parlato delle vite di due poeti, Kavafis e Penna. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Durante una giornata passata nel bellissimo museo del Prado, a Madrid, il visitatore curioso noterà come numerosi dei capolavori esposti siano opera di pittori italiani, da Raffaello a Mantegna a Tiziano. Certo loro non si sarebbero definiti in primo luogo “italiani”, ma astraendo dalla questione, assai dibattuta, di quando si sia creata una coscienza nazionale – se mai è accaduto fino in fondo in questo Paese – ci si può limitare a rilevare un dato di fatto geografico: quei quadri sono stati prodotti da artisti che erano nati, si erano formati e in larga parte avevano operato nella penisola italiana. A questo si può aggiungere un dato storico, ovvero che i capolavori suddetti risalgono per lo più nei due secoli abbondanti che vanno dal Quattrocento al primo Seicento.
Ma il visitatore attento leggerà nei pannelli informativi che altri grandissimi pittori nelle sale vicine, come lo straordinario El Greco, avevano creato il loro stile anche, se non soprattutto, durante i loro soggiorni a Roma o a Venezia. Oppure che l’influenza della pittura italiana rimase decisiva per diversi secoli, come i grandi musei – il Prado, il Louvre – permettono di mostrare con grande facilità anche al visitatore più disattento mettendo a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, ad esempio, Diego Velázquez e il Caravaggio.
Lasciandosi andare a un momento di patria fierezza, in quel pomeriggio di passeggio per le sale, e quasi vergognandosi subito di provare un sentimento così fuori moda, il visitatore sciovinista concluderà che il cuore della collezione del Prado viene dalle lontane creazioni dei suoi conterranei. Certo, c’è Hieronymus Bosch; certo, c’è Goya; ma fate scomparire gli italiani e farete fatica a giustificare il prezzo del biglietto.
Si può passare una vita intera a ricostruire le circostanze di quel miracolo, inutile fare il bignami di storia dell’arte: il mecenatismo delle decine di corti signorili, la straordinaria ricchezza della Penisola (l’area più prospera del mondo dall’impero romano al Quattrocento) e via elencando. Ma il miracolo dell’arte italiana tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età moderna resta e resiste almeno in parte alle spiegazioni troppo esaustive, perché, giusto per fare un esempio, un ricco e prospero Paese diviso in decine di città-stato in competizione è esistito per parecchi secoli anche in Germania. Non risultano tuttavia grandi musei del mondo che debbano la loro fama alle loro collezioni del Rinascimento tedesco.
Nel secondo capitolo della Letteratura europea e Medio Evo latino (1948), uno dei capolavori della critica letteraria del Novecento pur con tutti i suoi limiti, il critico Ernst Robert Curtius scriveva: parliamoci chiaro, in Europa si possono individuare con chiarezza le letterature nazionali più importanti per parecchi secoli. Prima quella francese, più o meno dal 1100 al 1275; poi quella italiana, dal Tre al Cinquecento; poi quella spagnola del “Secolo d’oro”, il Cinquecento e primo Seicento. A quel punto il testimone passa alla Francia, mentre cresce l’astro inglese, e infine si arriva in Germania con Goethe. Lo scrive così, nero su bianco, in una sorta di cronologia del primato letterario.
Non è solo una ricostruzione a posteriori fatta dai critici. Gli stessi artisti hanno spesso riconosciuto che quelle in cui vivevano fossero epoche straordinarie. Verso la fine del XII secolo il poeta francese Chrétien de Troyes, quasi escluso dai programmi scolastici nostrani ma in realtà tra i creatori di una parte notevole del nostro immaginario – quello del mondo cavalleresco, poi per secoli reinventato e ripreso – scrive, in apertura di uno dei suoi poemi (il Cligès):
Ce nos ont nostre livre apris
Qu’an Grece ot de chevalerie
Le premier los et de clergie:
Puis vint chevalerie a Rome
Et de la clergie la some,
Qui or est an France venue.
Dex doint qu’ele i soit maintenue
Et que li leus li abelisse
Tant que ja mes de France n’isse
L’enors qui s’i est arestee.
E cioè, traducendo male e letteralmente, ma mantenendo la divisione in versi:
Il nostro libro ci ha insegnato
Che in Grecia nacque il prestigio
della cavalleria e della cultura;
poi la cavalleria venne a Roma
con la cultura tutta, che ora
è arrivata in Francia.
Dio voglia che qui rimanga
e che il soggiorno le piaccia
così che dalla Francia mai se ne vada
la gloria che qui si è fermata.
Si racconta insomma che la “cultura” sia nata in Grecia, poi sia passata a Roma, infine si sia fermata in Francia: Curtius sarebbe stato d’accordo. E in effetti la Francia era allora la più grande potenza europea dal punto di vista militare – la “cavalleria” di Chrétien, da intendersi come l’eccellenza non solo militare ma anche della struttura sociale – a cui si accompagnava anche un primato nell’arte: nella letteratura, nell’architettura, nelle arti figurative. Chrétien fa una dichiarazione di consapevolezza storica piuttosto straordinaria.
L’esistenza di tempi di fortuna artistica indiscutibili comporta, come è ovvio, l’ammissione almeno implicita che altri tempi siano meno fortunati. Una visione della storia questa sì davvero fuori moda – come, in parte, quella di Curtius – parlava delle letterature come se fossero corpi vivi, che andavano in crisi di vecchiaia o attraversavano periodi di decadenza, e spiegavano i momenti difficili in base a eventi storici, movimenti politici o sociali. Non cadremo certo in simili esercizi di positivismo meccanicista, anche perché le coincidenze sono tutt’altro che perfette: il Caravaggio visse quando la Penisola era già stata devastata dai decenni traumatici delle guerre d’Italia.
Non ci interessano insomma i motivi né per forza indagarne le cause economiche o sociali. Ammettiamo soltanto la banalità che nella storia del nostro Paese l’arte figurativa del Cinquecento sia nel complesso più degna di nota di quella del Settecento o dell’undicesimo secolo, con tutto il rispetto per i bassorilievi del Duomo di Modena.
Così in letteratura o nella musica sinfonica ci sono, ci sono stati e, fino alla scomparsa del genere, ci saranno tempi più interessanti di altri. Di nuovo con il massimo rispetto, ma non mi è mai capitato di intercettare una conversazione sul piacere nell’ascolto di Luigi Nono, mentre non è assurda che qualcuno, anche al di fuori da un conservatorio o di una camera delle torture, dimostri entusiasmo per Mozart o Bach.
Tutti questi pensieri potrebbe fare il fortunato visitatore del Prado. E fermandosi a prendere qualcosa nell’elegante caffetteria al pian terreno, potrebbe rimuginare sul fatto che oggi, a guardarsi intorno, sembra proprio che per la letteratura si viva in tempi poco interessanti.
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