Nella scorsa puntata ho parlato del gusto nella lettura. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Qualche giorno fa ho comprato una raccolta di poesie di Kostantinos Kavafis (Settantacinque poesie, Einaudi, 1992) alla stazione ferroviaria di Firenze, mentre aspettavo il treno, attratto da non so che cosa. Il celebre poeta neogreco, ma vissuto quasi tutta la vita ad Alessandria d’Egitto, finisce di solito nelle antologie per Itaca: «Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga…», una delle più celebri tra le infinite rivisitazioni moderne del mito di Ulisse. Non scrisse molto in vita – il suo canone riconosciuto è di appena centocinquantaquattro testi – e lo fece per lo più in età adulta. Aveva un lavoro burocratico nell’amministrazione egiziana, in cui rimase impiegato per lunghi anni in una vita povera di eventi, prima di morire nel 1933, a settant’anni. Questo almeno è quanto si riporta nelle sue biografie sintetiche.
Più ancora di Franz Kafka – anche lui impiegato malvolentieri in un lavoro d’ufficio – la vita di Kavafis mi ha ricordato quella di Sandro Penna, di due generazioni più giovane e di gran lunga uno dei maggiori poeti italiani del Novecento. Li accomunano non solo le vicende biografiche, in entrambi i casi scarne e povere di eventi memorabili, ma anche lo stile: poesie brevi, tanto in Penna quanto in Kavafis, in cui spesso scintillano i corpi, il mare, la voluttà amorosa e le passioni omosessuali, con tutto il portato di sensi di colpa, di fierezza imbarazzata, di esibita trasgressione che ciò si porta dietro per due uomini vissuti in un’altra epoca. Penna è una sorta di Kavafis esuberante, o viceversa Kavafis è un Penna in toni pastello.
Sono due poeti raffinati, che curano il verso, il suono e la rima in un’epoca in cui cominciavano ad essere preoccupazioni fuori moda o per lo meno aperte a sperimentazioni ardite. Leggo poco e male il greco, figurarsi il neogreco, ma mi sembra di capire che anche le poesie di Kavafis, come quelle di Penna, siano piccoli congegni di perfezione formale. In Kavafis si aggiunge l’ulteriore raffinatezza di ambientare diverse poesie nel passato della Grecia classica o dell’impero bizantino: qualche nota di contesto storico, che per fortuna c’è nell’edizione Einaudi a cura di Nelo Risi e Margherita Dalmati, è necessaria per cogliere i riferimenti. Di Kavafis riporto qui non una delle migliori – che lascio ai lettori curiosi il piacere di scoprire – ma una delle più rappresentative, I desideri, che apre la raccolta (la traduzione è di Risi e Dalmati):
Come splendidi corpi di defunti sempreverdi
pianti e sepolti dentro un mausoleo
la testa fra le rose, coi gelsomini ai piedi –
tali a noi sembrano i desideri che passarono
senza avverarsi mai; e non uno che trovasse
la sua notte di voluttà o un suo mattino lieto.
Che a mio modesto avviso è una poesia perfetta fino all’ultimo verso e mezzo: dopo il punto e virgola mi suona un poco ridondante e troppo precisa – la natura dei desideri poteva forse restare nell’indeterminatezza – ma di nuovo mi ricordo che la leggo in traduzione e dunque l’originale ha forse una sua compiutezza che non posso cogliere. Questi versi risuonano con tanti di Penna, come ad esempio:
Era la mia città, la città vuota
all’alba, piena di un mio desiderio.
Ma il mio canto d’amore, il mio più vero
era per gli altri una canzone ignota.
Sia Penna che Kavafis volevano far credere di aver scritto poco. Penna raccontava che le poesie gli nascevano nel sonno, spontanee. L’unica cosa che doveva fare era scribacchiarle su un pezzetto di carta al risveglio, ritagli che poi faceva vedere ad amici e conoscenti nella sua misera casa dalle parti di piazza del Popolo, a Roma. Tanto questa spontaneità quanto la tarda e limitata vocazione di Kavafis sono splendide illusioni, creazioni del proprio mito.
Penna voleva nascondere il lungo e difficile apprendistato poetico, le prove e il lavorio sui versi, più o meno come Jack Kerouac voleva far passare la storiella che Sulla strada fosse stato scritto di getto su un unico rotolo continuo di carta durante una lunga sessione di scrittura sostenuta dalle droghe. Kavafis invece fece in modo che restasse un gruppo di appena centocinquanta testi o giù di lì, per lo più scritti in età adulta: segno che chissà quanti dei tentativi giovanili erano andati perduti o distrutti.
Gli scrittori inventano sempre la propria biografia e, come tutti, vogliono costruire un personaggio di sé stessi. In Penna è il poeta baciato dal dio con il dono dei versi, per Kavafis l’uomo schiacciato in una vita monotona che cerca la fuga negli sfumati ricordi personali e storici. Siamo attratti dalle vite degli scrittori pensando che rivelino chissà quale segreto sulle condizioni in cui nasce l’arte, ma le loro biografie sono solo un’altra opera.
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In originale è bellissimo il ritmo: un andamento dattilico che è tutt'uno con la nostalgia di un passato idealizzato.
San sómata oréa nekrón pou den eyérasan / ke tá' klisan me dákrya se mafsolío lambró / me róda sta kefália ke sta pódia yasemiá / étsi ine i epithymíes pou epérasan...
In originale è bellissimo il ritmo: un andamento dattilico che è tutt'uno con la nostalgia di un passato idealizzato.
San sómata oréa nekrón pou den eyérasan / ke tá' klisan me dákrya se mafsolío lambró / me róda sta kefália ke sta pódia yasemiá / étsi ine i epithymíes pou epérasan...