Nella scorsa puntata ho parlato di quando verrà la fine del mondo. Se quello che leggete qui sotto vi piace e non siete ancora iscritti, potete ricevere questa newsletter direttamente nella vostra casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui. E perché non consigliarla a qualcuno poi?
Al lettore affezionato sarà capitato almeno una volta di imbattersi in una frase o in una pagina che rimane impressa nella memoria con forza singolare. A distanza di mesi o anni, se ne sta ancora lì, quella frase, e ritorna in mente come una canzone, a volte a proposito, a volte senza un motivo evidente.
Oggi imparare a memoria i testi, al di là di esigenze professionali o di studio, è un’attività quasi scomparsa – mentre è stata comunissima per secoli, quando i libri erano oggetti rari e preziosi – e la memorizzazione è un processo in larga parte casuale. Ricordo come finisce Sulla strada di Jack Kerouac o come inizia La biblioteca di Babele di Borges, ma non ricordo con altrettanta precisione una sola riga del Grande Gatsby o di Cuore di tenebra, che pure ho amato non meno.
Nel mio album non sconfinato della memoria ci sono, a quanto posso ricostruire, due frasi che vengono da libri che riguardano l’economia o la politica. La prima è molto celebre ed è di John Maynard Keynes, nelle ultime righe della sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936). Dice:
Gli uomini pratici che si credono indenni da ogni influenza intellettuale sono di solito schiavi di qualche economista defunto.
Anche se ci piace immaginare che la nostra soluzione concreta e di buon senso a problemi economici venga soltanto dalla nostra riflessione di non specialisti, scrive Keynes, in realtà alla base delle nostre idee ci sono teorie economiche ben note, individuabili a un occhio più esperto, di cui semplicemente non siamo consapevoli.
L’osservazione di Keynes si adatta molto bene anche alle idee politiche: tanto più oggi, in cui l’economia si è per molti aspetti mangiata la politica. Capita infatti di partecipare a discussioni in cui l’interlocutore dichiari di non conoscere molto il mondo della politica, ma di essere preoccupato soprattutto da temi che definirà «concreti», o «più semplici», o addirittura – espressione che dovrà far suonare un campanello di allarme – «né di destra né di sinistra».
Ma non appena si comincia ad approfondire quei temi “concreti” o “neutri”, si arriverà presto a dover scegliere tra alternative che si escludono, a dover preferire una strada piuttosto che un’altra. Se dalla scelta contingente si astrarrà al principio generale, quelle opposizioni diventeranno presto chiare. Nel fare le nostre scelte preferiamo andare nella direzione di più Stato o meno Stato? Di privilegiare l’interesse individuale o collettivo? Di favorire chi possiede un’impresa o chi ci lavora?
Certo, in teoria esistono questioni non politiche ma amministrative, come far pagare in un tempo ragionevole i debiti della pubblica amministrazione, oppure avere tribunali ordinati ed efficienti. Ma anche in quei casi, la politica è dietro l’angolo: dovendo trovare le risorse necessarie, bisognerà sottrarle ad altro, e anche ordinare la lista delle priorità non potrà che essere una decisione politica.
Le scelte fatte davanti alle questioni politiche, per non entrare in contraddizione, si organizzano di solito in campi coerenti e contrapposti. Uno degli aspetti più affascinanti dell’esperienza intellettuale umana è la sua fondamentale organizzazione intorno a diadi: non solo le intuitive opposizioni bene/male, luce/ombra, ma anche nelle dispute più di dettaglio, nei dibattiti culturali più specialistici si tenderà a concentrare le opinioni intorno a due poli che si escludono a vicenda.
E così avviene anche in politica. Si possono chiamare i due campi in molti modi: storicamente, e per ragioni del tutto casuali – la scelta dei seggi nel Parlamento francese durante la Rivoluzione – li si chiama “destra” e “sinistra” (il “centro” esiste, ma è una versione moderata di una delle due posizioni e non una vera terza alternativa). Naturalmente non tutte le caratteristiche della “destra” e della “sinistra”, e forse neppure la maggior parte, sono fissate una volta per tutte. Esiste un’evoluzione storica dei concetti che va in parallelo con i problemi e i cambiamenti sociali, ma il punto fondamentale è questo: in politica, una scelta binaria, di qua o di là (per semplicità diremo: a destra o a sinistra), non si può eliminare.
Uno dei libri che spiegano e approfondiscono con maggior chiarezza questi concetti è il giustamente celebre Destra e sinistra di Norberto Bobbio, pubblicato da Donzelli nel 1994 e poi più volte riedito. Nonostante abbia più di venticinque anni, è ancora un’analisi del tutto valida anche per il tempo presente. L’ho riletto negli ultimi giorni, durante la crisi che ha portato al governo Draghi.
Di Bobbio mi è rimasta scolpita nella memoria – il secondo esempio di cui parlavo sopra – una nota a piè di pagina. Continua a essere una delle mie stelle polari quando penso alla politica oggi. Eccola: «Il credere che quando si discutono problemi concreti ci si possa mettere d’accordo sull’unica soluzione possibile è il frutto della solita illusione tecnocratica» (cap. 1, nota 2).
I governi “tecnici” insomma non esistono. Non esiste una sola soluzione “giusta” a nessun problema politico. E quindi anche quanto ci viene posto davanti come inevitabile deve essere analizzato con le lenti delle nostre convinzioni e dei nostri valori, sia che ci poniamo a destra, sia che ci poniamo a sinistra. Tutto il resto, dice Bobbio, è un’illusione.
Commenti? Idee? Suggerimenti? Potete scrivermi semplicemente rispondendo a questa email.