Nella scorsa puntata ho parlato di libri politici o sulla politica. Se siete nuovi qui, ecco una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che trovi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Bernardo Zannoni è uno scrittore classe 1995, nato e cresciuto a Sarzana, come notano sempre le quarte di copertina e le brevi biografie che si trovano online con più facilità. Si era fatto notare con I miei stupidi intenti (Sellerio, 2021), il suo debutto, che ha avuto un grande successo – ottantamila copie vendute, dice la fascetta dell’opera seconda – e ha vinto il Premio Campiello. Successo meritato. I miei stupidi intenti partiva da uno spunto interessante e originale – i personaggi sono animali, come in una favola – che sviluppava con toni da allegoria cupa, a più riprese violenta. Era tra i miei migliori libri di narrativa italiani del 2021. Un esordio che faceva ben sperare.
Ora Zannoni è tornato con 25 (Sellerio, 2023, 192 pp.). Il protagonista è un giovane, Gero, che vive in una cittadina di provincia e fatica a trovare una direzione nella vita. Spaesamento condiviso dal suo gruppo di amici, alle prese con amori tormentati e drammi personali. Gero vive una serie di disavventure, incrociando una galleria di personaggi tragici o grotteschi, prima di un finale che lascia la porta aperta alla speranza. Anche nel secondo libro ritorna spesso la descrizione della violenza, in scene fisiche, sanguinolente, a tratti orrorifiche. C’è qualche incursione nel fantastico, nell’onirico e in una certa kafkiana claustrofobia.
I miei stupidi intenti aveva qualche difetto, che si poteva scusare a uno scrittore agli esordi e che veniva comunque più che bilanciato dai pregi. Fra i limiti, uno dei più evidenti era una certa espressione didascalica dei sentimenti. Nella letteratura come nelle altre arti, il sentimentalismo suona sempre stucchevole o ricattatorio. Come a nessuno piace sentirsi dire che cosa dovrebbe fare, così a nessun lettore piace avere indicazioni troppo nette su come si dovrebbe sentire.
Il problema del secondo libro di Zannoni è che quel difetto, invece di scomparire, viene amplificato. In più passaggi le difficoltà e i tormenti del protagonista trovano un’espressione goffa, stonata. Un esempio (p. 75):
Gero buttò lontano la sigaretta. La vide bagnarsi, trascinata via da un rivolo d’acqua. Tutti vanno avanti rannicchiati dietro questa idea: che vada tutto bene. Senza una speranza, non avrebbe senso fare le cose che si fanno ogni giorno. Non ci si crede perché è qualcosa di concreto: ci si crede perché si deve credere in qualcosa, altrimenti chiunque avrebbe chiaro di stare solo respirando, di essere insignificante.
A parte la sbavatura di quel rannicchiati (un’immagine un po’ storta, dato che il verbo non si accorda granché bene con idea) il pensiero che segue è molto banale e lo è, imperdonabilmente, anche la sua espressione. Ammettiamo pure che sia la realtà stessa ad essere banale: ma l’abilità dello scrittore è nel dar corpo, immagine, voce a sentimenti che fanno parte della condizione umana in modi sempre nuovi. Per farlo però deve trovare strade indirette, mediate, qualche volta, se è fortunato, persino originali. Deve suggerire, non declamare.
Il secondo problema è che il protagonista di 25 osserva il mondo intorno a sé e i personaggi che lo popolano con l’egoismo un po’ cieco tipico di chi non è ancora davvero cresciuto e soffre ancora della mancanza di empatia che riduce gli altri a macchiette. Ma per uno scrittore il difetto di empatia è un peccato capitale. Un esempio (pp. 48-49: si parla di un incontro occasionale in un bar):
Gero lo conosceva, ma allo stesso tempo non avrebbe saputo dire il suo nome: faceva parte di un grande gruppo indefinito, in continuo mutamento, le ombre, come le chiamava lui. Erano le compagnie occasionali, gli amici fasulli, sempre pronti a prendere qualcosa per poi dileguarsi, che fosse una notte o un’intera settimana. Non davano niente e non lasciavano tracce, a parte quando ti distruggevano casa, o elemosinavano qualcosa. Di ombre ce n’erano tante, un numero quasi infinito.
Anche qui ci sono un paio di traballamenti linguistici (non mi è chiaro per esempio a che cosa si riferisce «che fosse una notte o un’intera settimana», se ciò che le ombre prendono o per quanto si dileguano: in entrambi i casi la sintassi è sbagliata) ma soprattutto si avverte un certo atteggiamento egocentrico – che mescola il vittimismo al senso di superiorità – tipico del superomismo tardoadolescenziale.
C’è infine un problema di tenuta del racconto. Nel breve periodo in cui si svolge il libro Gero è coinvolto in una moltitudine di vicende, a volte comiche, più spesso tragiche, per lo più non collegate in modo stretto da vere necessità narrative. Non è facile tenere insieme così tanti materiali – che includono, per menzionarne solo alcuni, un lutto, un gravissimo incidente che riguarda un amico, una prima esperienza lavorativa disastrosa, un inserto dai tratti fantastici – in un libro tutto sommato breve, circa centottanta pagine. Il risultato infatti è deludente e le idee più originali arrivano e se ne vanno senza aver mostrato la loro potenzialità o lasciando l’impressione di occasioni sprecate.
Zannoni ha comunque talento e un paio di episodi sono molto ben riusciti. Uno mi ha incuriosito: si trova verso il finale e riguarda un locale chiamato Blue Pill. Il riferimento evidente è a Matrix, anche se il concetto di “pillola blu” ha poi avuto molta fortuna nella cultura pop contemporanea. Proprio questo richiamo a un fenomeno culturale di massa come i film di Matrix mi ha fatto mettere a fuoco un’altra caratteristica del libro. L’immaginario dell’autore, o almeno l’ambito da cui trae i suoi materiali e in cui si muove, è più visivo che letterario. Non c’è nulla di male, di per sé, e anche il debutto dell’autore era straordinariamente visivo. Ma il lettore di 25 è portato a pensare che dietro il libro ci siano più serie televisive che romanzi.
I libri tradiscono sempre la quantità e la qualità degli altri libri che ci stanno dietro, che li hanno nutriti o ispirati, anche inconsapevolmente. In 25 si sente che quel nutrimento non è troppo robusto, né troppo di ampio respiro. I mezzi espressivi non sono intercambiabili e per esprimersi al meglio bisogna padroneggiare i linguaggi e le tecniche di quel mezzo specifico. Si può dunque avere qualcosa da dire per aver visto molti film: se però lo si vuole esprimere tramite la parola scritta, l’esperienza in altri campi non basta. E l’esperienza non dev’essere generica ma specifica: per scrivere un poema bisognerà essere a proprio agio nella poesia, frequentando solo romanzetti di intrattenimento non si produrrà mai l’Ulisse (e viceversa), per produrre un saggio convincente sarà necessario aver letto molti saggi.
In generale, se non si è letto davvero molto e – come avrebbe detto Arbasino – le cose giuste non si potrà scrivere granché di buono. E anche in quel caso non è detto. La familiarità con i libri è condizione necessaria ma non sufficiente. Tornando a Zannoni, la sua chiara ambizione di trattare temi importanti in libri di valore non sembra del tutto sostenuta dagli strumenti che ha a disposizione.
Zannoni si era presentato come una delle voci più interessanti della nuova narrativa italiana, che aveva esplorato strade originali con grande coraggio. Con il secondo dimenticabile libro ha però preso un vicolo cieco. Bisognerà aspettare ancora per capire quale sia davvero la sua voce.
PS: Il 27 ottobre uscirà in libreria Bugie al potere, il primo libro di Pagella Politica, cioè il progetto di informazione di cui sono direttore. L’ho scritto con il collega Carlo Canepa e viene pubblicato da Mimesis. Più informazioni e la possibilità di preordinare si trovano qui.
Commenti? Idee? Suggerimenti? Puoi scrivermi rispondendo a questa email o, meglio ancora, nei commenti qui sotto.