Nella scorsa puntata ho parlato dell’esperienza del libro di carta, della superiorità sul Kindle e del lettore che si fa via via più esigente. Se siete nuovi qui, ecco una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che trovi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
La politica riguarda tutti e tutti hanno idee politiche, anche se in pochissimi oggi si impegnano in prima persona e parlarne, se non si è tra gente che si conosce bene, è considerato spesso sconveniente. Le scienze politiche sono poi un campo straordinariamente ricco e complesso, fatto di economia e sociologia, di diritto e storia, senza contare la psicologia e la filosofia. Nelle ultime settimane mi sono dedicato a qualche lettura “politica”, partendo da un libro di Luciano Gallino, grande sociologo scomparso nel 2015, e pubblicato con il titolo Una civiltà in crisi. Contraddizioni del capitalismo (Einaudi, 2023, 392 pp.).
Si tratta in realtà di un’operazione editoriale piuttosto ardita: non è una vera e propria opera postuma, ma un collage di capitoli che provengono da opere già uscite quando l’autore era in vita, a cui si aggiunge la pur ottima introduzione della curatrice Paola Borgna. Proprio Borgna ricorda che la ricerca di Gallino si caratterizza per la sua attitudine critica: non solo uno studio della realtà, ma un’analisi animata dall’idea che le cose potrebbero andare in un altro modo. E che le cose non andassero per il verso giusto Gallino lo sosteneva con forza, tanto che fin dalle prime pagine il libro è una sorta di denuncia dell’assetto politico-economico-istituzionale in cui ci troviamo.
Parlare di critica al capitalismo oggi è rischioso. Non perché le critiche non ci siano: dalla destra nazionalista alla sinistra contro le disuguaglianze, le posizioni politiche che mettono in questione aspetti fondamentali dell’ordine contemporaneo (l’internazionalismo, la globalizzazione, il libero movimento dei capitali) sono più o meno dappertutto. Sembra però che utilizzare la parola “capitalismo” sia fuori discussione. I più arditi, a costo di esporsi al pubblico ludibrio, si spingono fino a criticare il “neoliberismo”: ma anche lì è come se si mettessero da soli sulla gogna. Per qualche motivo l’assetto attuale – comunque lo si voglia chiamare – appare così radicato, così inevitabile, da essere nei suoi fondamentali fuori discussione. E ogni critica che va alle fondamenta richiama immediatamente velleitarie posture da rivoluzionari fuori tempo massimo.
Dal livello generale, l’impermeabilità alla critica si spinge a varie articolazioni particolari. L’Europa va cambiata, sì, ma qualcuno metterebbe più in discussione l’euro o l’Unione europea? Per questo il lettore de L’Euro di Joseph Stiglitz (Einaudi, 2017, 456 pp.) o i molti saggi di Perry Anderson sulla London Review of Books a tema Unione europea si sentirà come un pericoloso sovversivo, anche se le domande poste sono fondamentali, difficili da aggirare, e spesso colpiscono senza i guanti. Gallino rientra senz’altro nello stesso filone, e Una società in crisi è una critica approfondita (anche se leggendolo mi è sorto qualche dubbio su aspetti di dettaglio) al peso e all’influenza della finanza nei nostri sistemi economici, al mancato argine posto dalla politica occidentale a certe derive, alla progressiva erosione del principio del lavoro come fondamento per una vita dignitosa che, a fianco della rete di protezione fornita dallo stato sociale, è stato per decenni alla base del patto sociale delle nostre democrazie.
La vis polemica di Gallino, che pone con convinzione e discreta preveggenza anche la questione ambientale, ha un lato negativo: ne esce un quadro così pessimista da essere quasi disperante. Meno negativa, ma rivolta anche questa a questioni fondamentali, è l’analisi di Maria Rosaria Ferrarese in Poteri nuovi (Il Mulino, 2022, 176 pp.), che tenta di capire come è cambiato il potere – le sue forme, il suo esercizio, i suoi luoghi di residenza. Che lo schema tradizionale, con la preminenza dello Stato e le liturgie repubblicane, non spieghi più tutto, penso sia evidente a tutti. Più difficile è capire che cosa lo abbia sostituito.
Il potere ha traslocato, dice Ferrarese, sia al di sopra dello Stato – con le organizzazioni internazionali e i molti luoghi di incontro e discussione dei leader più o meno formali – che al di fuori dello Stato, verso alcune società private di dimensioni economiche gigantesche. Poco tempo fa, per fare un esempio assai concreto, il New Yorker ha pubblicato un ritratto di Elon Musk in cui si racconta come, tramite la connessione Internet garantita dal suo sistema satellitare Starlink, il miliardario abbia in mano le chiavi delle comunicazioni sul campo delle prime linee dell’esercito ucraino, tanto che le stesse autorità statunitensi si ritrovano spesso a dover trattare con lui da una posizione che si potrebbe quasi definire subalterna. Si aggiunga che il suddetto ha un carattere all’apparenza instabile ed è appena diventato proprietario di uno dei principali social network, il fu Twitter. Se la più grande potenza globale deve trattare con un imprenditore, per quanto ricco, per evitare un grave danno alle sue principali strategie nella politica estera e militare – il sostegno continuato a l’Ucraina in guerra – qualcosa si è proprio incrinato nel rapporto tra poteri politici e poteri privati.
Forse la critica del presente non è più così di moda perché il mondo in cui viviamo è tutto sommato omogeneo. Dalla Cina all’Europa al Sudamerica, con pochi aggiustamenti locali, il sistema economico in cui viviamo è più o meno lo stesso. Ma forse manca anche chi si dedichi a studiare, approfondire, proporre alternative a stretto contatto con la politica. Il ruolo insomma che è dell’intellettuale. Che fine abbiano fatto gli intellettuali politici lo spiega molto bene un altro libro recente, Senza intellettuali di Giorgio Caravale (Laterza, 2023, 168 pp.). In breve: gli intellettuali non sono certo scomparsi, ma il loro rapporto con il potere si è interrotto suppergiù dagli anni Novanta, da quando cioè i grandi partiti della Prima Repubblica hanno lasciato il posto alle nuove formazioni politiche della Seconda. Formazioni spesso “senza storia”, nel senso che non avevano legami dichiarati con grandi tradizioni politiche e di pensiero, né d’altra parte li andavano a cercare: anzi, una costante delle formazioni politiche nuove dell’Italia contemporanea è un rapporto con la categoria intellettuale conflittuale o di aperto disprezzo (e qui si può citare tanto Bossi, quanto Renzi o Berlusconi o Grillo).
Caravale nota giustamente come l’abbandono sia stato reciproco: gli intellettuali si sono chiusi in sé stessi, dedicandosi a iniziative sterili o di bandiera, senza peraltro mettere da parte la nota litigiosità dell’area. Condannandosi cioè all’irrilevanza. A voler allargare il quadro, si potrebbe aggiungere che la sempre minore centralità delle discipline umanistiche nell’elaborazione delle idee politiche – scalzata dall’economia, quando è stata sostituita da qualcosa e non dal vuoto – ha spinto molti intellettuali verso un pensiero a tutti i costi critico verso le idee del potere, come in una reazione rancorosa verso chi li aveva messi da parte. Finendo però spesso per trovarsi in pessima compagnia, come si è visto durante le grandi crisi recenti (la pandemia, soprattutto). Non si esagera se si dice che l’intellettuale è spinto oggi verso il pensiero paranoico.
I grandi cambiamenti in atto nei modi di governare la cosa pubblica investono ogni suo aspetto e per fortuna ci sono parecchi libri recenti che analizzano il cambiamento. Il lettore politico ha solo l’imbarazzo della scelta.
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