L’opera d’arte nell’era della sua producibilità tecnica
Che fine faranno i libri con l’intelligenza artificiale?
Nella scorsa puntata ho parlato di chi si può chiamare scrittore. Se siete nuovi qui, ecco una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che trovi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. E infine, se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, il sabato, cliccando qui.
I.
Nell’interessante saggio sull’intelligenza artificiale La scorciatoia (Il Mulino, 2023, 216 pp.), l’autore Nello Cristianini, che insegna all’università di Bath, fa due osservazioni che mi sono rimaste impresse e che spero di non tradire troppo nel mio riassunto da non specialista. La prima, in apparenza banale, è che l’intelligenza ha forme molto diverse. Un polpo o un delfino o un elefante sono animali straordinariamente intelligenti, ma che avrebbero qualche problema a superare – anzi proprio a partecipare – al famoso test di Turing. Eppure quegli animali comunicano e almeno nel caso dei cetacei (anche se sul tema c’è un po’ di dibattito tra gli specialisti) possiedono perfino qualcosa che sembra proprio una cultura, cioè informazioni non innate che si tramandano da una generazione all’altra. L’intelligenza del polpo mi è tornata in mente leggendo questo articolo di Antonio Russo uscito un paio di giorni fa sul Post, dedicato alle varie ipotesi sulle altre forme di vita possibili nell’universo e alle spiegazioni date dagli scienziati all’evidente mancanza di indizi emersi finora sulla loro esistenza (su questo punto devo dire di aver incontrato gente fermamente convinta del contrario, ma questa è un’altra storia). A margine dell’articolo aggiungo l’alta probabilità, che nel pur ottimo pezzo rimane sullo sfondo, che forme di vita intelligenti siano più simili ai cefalopodi o ai corvi in termini di comunicazione e influenza sull’ambiente circostante. Se mai incontrassimo un’altra forma di vita intelligente, potrebbe esserlo in modi a noi di fatto inaccessibili.
Il secondo grande insegnamento che mi ha lasciato il libro di Cristianini è che i software che abbiamo costruito e che oggi chiamiamo “intelligenze artificiali” funzionano in modi per noi incomprensibili. Esistono infatti due modi di insegnare a un software a gestire situazioni inedite in modo da ottenere un esito utile, cioè a comportarsi in modo intelligente. Il primo è fornire una lista di comandi ben definiti, cioè fornire il più alto numero possibile di “istruzioni per l’uso”: che un tavolo è una superficie per appoggiare qualcosa, che un oggetto pesante a grande velocità può causare un danno a un essere vivente, che la gravità attira i corpi verso il basso e così via. È naturale che questa strada richieda uno sforzo enorme, in termini di tempo e di lavoro umano, per individuare e trasmettere una quantità di norme che arriva rapidamente all’ordine di grandezza dei milioni.
La strada che si è invece rivelata più fruttuosa, usata per creare le “intelligenze artificiali” (IA) di cui si discute in questi mesi – quelle che producono testi originali da indicazioni testuali, come ChatGPT, o immagini come Dall-E – è differente. In sostanza, i programmi informatici hanno accesso a quantità spropositate di dati, miliardi di testi e immagini digitalizzati, e in questi hanno trovato da soli una serie di “regole”, osservando ricorrenze statistiche invisibili a qualunque occhio umano. Collegamenti che sono in larga parte per noi inaccessibili, nel senso che non sono espressi dalla macchina in linguaggio umano, e che si basano su una mole di dati per noi ingestibile. Ciò fa sì che le risposte di simili strumenti appaiano a volte incomprensibili. Le correlazioni sono di tipo statistico e si basano su dati in origine prodotti da noi, intesi come il genere umano, ma i percorsi attraverso quegli immensi database sono stati tracciati in autonomia e senza il nostro diretto controllo. In questo senso, non siamo del tutto consapevoli di che cosa stiano facendo le IA.
II.
Forse la presenza dell’autore umano, di una persona riconoscibile e storicamente determinata dietro i testi (o le immagini o i video), farà sì che l’arte umana sia sempre più interessante di quella prodotta da ChatGPT, una posizione piuttosto frequente (ad esempio in questo articolo sul New Yorker). Come vedremo più oltre, la rassicurazione ha le sue basi però su un’idea di arte e di autore tutto sommato ristretta e certo non universale, né nel tempo né nello spazio. Ed è anche possibile che l’IA oggi al centro di tanti discorsi sia in realtà una grande bolla, come ha scritto Cory Doctorow in una serie di considerazioni taglienti, centrate per lo più sull’aspetto economico. Una lettura rinfrescante in questo periodo di previsioni a ruota libera, e a volte piuttosto slegate dalla realtà, su come una tecnologia che ha ancora parecchi limiti possa rivoluzionare dall’oggi al domani settori interi dell’economia.
Limitata, si diceva: ma limitata nello specifico – e qui veniamo al punto – a fare qualcosa che invade pericolosamente il campo della scrittura creativa (nonché all’illustrazione e al cinema). È facile osservare come l’intelligenza artificiale sia ancora molto lontana da risultati apprezzabili in termini artistici, dando il suo meglio nella redazione di testi generici, di riempimento, su temi molto battuti, e rivelandosi del tutto inadeguata, ad esempio, nella restituzione di informazioni veritiere su temi specifici. I risultati variano poi molto da lingua a lingua. La capacità di fornire riferimenti bibliografici precisi o di ammettere i confini delle domande a cui non si può dare una risposta certa è scarsa. L’IA è ottima per suggerire attrazioni turistiche in una grande città, o per suggerire soluzioni ai programmatori, pessima però nello scrivere un sonetto in italiano. La poesia insomma sembrerebbe al sicuro.
Ma lo sviluppo è solo agli inizi e giudicare le potenzialità di strumenti simili da quanto possiamo ottenere oggi è come arrivare a una valutazione definitiva del cinema sulla base dei filmati dei fratelli Lumière. Nel 1895 presero a mostrare in pubblico filmati di scene quotidiane della durata di circa cinquanta secondi, muti, sgranati, in bianco e nero, impressi su pellicole lunghe 17 metri. Più o meno un secolo più tardi, nel 1997, usciva nei cinema di tutto il mondo Titanic. L’operazione è concettualmente la stessa – la proiezione di immagini in movimento – la qualità e ricchezza dei risultati in qualche decennio è quasi incommensurabile.
La valutazione delle conseguenze sulla creazione artistica dell’intelligenza artificiale va dunque condotta guardando all’operazione in astratto resa possibile dalla nuova tecnologia, più che alle limitazioni contingenti del suo sviluppo attuale. E l’IA è in grado di fare questo: produrre testi e immagini e video su richiesta, in tempi rapidi e con risultati comparabili a quelli di un essere umano.
Difficile che l’IA sostituisca il giornalismo in quanto tale, tanto per considerare un altro dei settori che si reputano coinvolti dalla rivoluzione in corso, almeno quello originale e di prima mano, giacché alla base del giornalismo c’è una descrizione e un’interpretazione della realtà basata su una moltitudine di fattori in evoluzione in tempo reale che è ancora ben al di fuori della portata delle macchine. Già per descrivere un evento semplice come un voto parlamentare è necessario tenere conto di tante e tali informazioni di contesto – l’importanza del provvedimento, i rapporti politici espressi dal voto, le anomalie rispetto alle previsioni della vigilia, i comportamenti individuali in aula – che è difficile immaginare la sostituzione in tempi brevi di un cronista a Montecitorio. Mentre è più probabile che, in pochi anni se non in mesi, l’IA diventi una buona alternativa e una seria concorrenza al giornalismo “di aggregazione”, che nelle sue forme peggiori è una brutale copiatura del lavoro fatto da altri e nella migliore è un’utile contestualizzazione o selezione, magari per pubblici diversi, di contenuti comunque nati altrove.
III.
Nel suo saggio più celebre, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Einaudi, 2000 [ed. or. 1936]), Walter Benjamin scriveva che l’avvento della possibilità di riproducibilità tecnica – come nel cinema o nella fotografia – aveva tolto all’opera d’arte la sua “aura”, ovvero il valore collegato all’autenticità e all’unicità nel tempo e nello spazio. La riproduzione meccanica dava la possibilità di godere della stessa opera d’arte in altri luoghi e in altri momenti, slegando l’opera dall’immanenza, dal qui e ora, fino ad allora legati alla sua fruizione (Benjamin si concentrava soprattutto, se non esclusivamente, sulle arti figurative). In altre parole, l’arte basata sull’unicità del dipinto o della scultura tramontava con la fotografia, che tra le sue molte innovazioni era in grado anche di modificare la prospettiva sulle stesse opere del passato, ad esempio ingrandendo un particolare o rendendo possibile osservare da più punti di vista contemporaneamente.
L’IA generativa, dopo tutto, non fa che ampliare un processo simile a quello analizzato da Benjamin. La grande innovazione è che tale processo non è più limitato alla sola riproduzione. E se l’IA non si limita a riprodurre, dunque, che cosa fa? Si potrebbe dire che, a prima vista, l’intelligenza artificiale imiti. Poiché parte da un corpus di testi limitato, prodotto da esseri umani, e da lì trae i materiali per quanto restituisce a chi la interroga, il suo lavoro potrebbe apparire soltanto quello di proporre, con variazioni più o meno accentuate, quanto già scritto in passato e accessibile al software.
A ben pensare, tuttavia, che cosa fa di diverso uno scrittore se non rielaborare le proprie letture passate, a cui aggiungerà il vissuto personale e le circostanze individuali? L’opera di un moderno imitatore umano è una lettura fastidiosa e poco considerata perché intrinseca nel concetto è la qualità inferiore, per mancanza di sufficiente apporto creativo personale ma anche per inadeguatezza rispetto al modello. Per paradosso un perfetto imitatore produrrebbe opere dello stesso valore dell’originale – o identiche, come s’immaginò Borges con Pierre Menard, autore del Chisciotte – e dunque meritevoli esse stesse di essere considerate opere d’arte. Gabriel García Márquez avrà senz’altro creato una schiera di mediocri epigoni, i cui nomi nessuno o pochi conoscono: ma Isabel Allende, nella quale pure si legge una robusta influenza di Márquez, ha creato qualcosa di grande valore in sé.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare e sono particolarmente facili per gli autori con una voce forte e inconfondibile, come J.L. Borges o Roberto Bolaño. Senza spingersi troppo nelle teorizzazioni postmoderne della letteratura, che affidano ai precursori un’importanza cruciale e a tratti smisurata arrivando a descrivere i libri come un enorme gioco di citazioni e rimandi, si potrebbe concludere che lo scrittore altri non è che un imitatore di successo da molteplici fonti e che la differenza tra imitazione e originalità è solo di grado e non di qualità.
Allo stesso modo, se la creazione artistica segue sentieri misteriosi, o che i critici e gli studiosi spiegheranno alla luce del contesto culturale, linguistico, perfino politico o economico, d’altra parte le corrispondenze segrete trovate dai software nel corpus dall’IA sono ugualmente insondabili. E quelle corrispondenze saranno in realtà non meno aperte all’interpretazione basata sul contesto di, poniamo, l’influenza delle strutture politiche asburgiche sull’opera di Franz Kafka. Intorno all’IA, come vedremo, c’è pur sempre il nostro mondo, che influenza pesantemente le sue modalità di fruizione, la sua materia di partenza, i suoi risultati. L’esegesi storica di un testo di ChatGPT non è meno interessante di quella di Rabelais o Tucidide.
IV.
Fino a quando l’IA sarà al livello odierno potremo dire che imiterà l’arte, ma non è difficile intravedere il momento in cui sarà in grado di produrla a tutti gli effetti. Sottoponendo a ChatGPT 4 la richiesta di avere «un racconto breve, come se fosse scritto da un delfino» si ottengono al momento risultati un po’ triti e pieni di metafore non troppo originali, ma tutt’altro che disprezzabili e più che sufficienti, ad esempio, per una storia della buona notte. Quella versione del software esiste da qualche mese. Quanto riuscirà a fare tra venti o trent’anni non potrebbe essere sorprendente: lo sarà senza dubbio.
Se si vuole valutare l’esperienza personale come un quid insostituibile, davvero nulla – se non qualche sensore ambientale e qualche riga di codice – impedisce a una macchina, un domani, di produrre un testo che tragga ispirazione dalle circostanze di illuminazione, di temperatura, di rumore e di tutto quanto sia rilevabile in quel momento nell’ambiente dove si trova la macchina a cui viene espressa la richiesta; o anche, se è per questo, alla luminosità della cintura di Orione o alla situazione sismica in Cile. Fornito di abbastanza dati, l’IA del futuro potrebbe scrivere il romanzo della Terra intera. E farlo ogni secondo.
Si potrebbe comunque sostenere che l’IA lavori soltanto su stimolo umano e seguendo i suoi suggerimenti più o meno creativi, che cioè essa si limiti a mettere in atto quanto dai suoi manovratori è immaginato in potenza. Ma non è difficile pensare a generatori casuali, o che anticipano le nostre richieste, o che compilano in automatico infiniti testi possibili, in altre parole a situazioni in cui lo spunto umano sia tenue fino a scomparire. Quanto non cambierà mai invece è che l’IA sarà sempre e comunque uno strumento creato e reso possibile dagli esseri umani, come la cinepresa o la macchina fotografica. Oltre a ciò, ogni pretesa di controllo o primazia viene meno.
V.
I sistemi di IA sono naturalmente frutto del modello economico e sociale contemporaneo. L’esperienza online sempre più parte delle nostre vite è monopolizzata da poche grandi aziende multinazionali, quasi sempre basate negli Stati Uniti – Google, Apple, Facebook (Meta), Amazon, Microsoft, i cosiddetti Gafam – e ciò si riflette in sistemi di intelligenza artificiale chiusi e gestiti più o meno direttamente dalle stesse o da loro emanazioni: Bard di Google, OpenAI legata a Microsoft, i modelli LLAMA di Meta. Per quanto questi ultimi siano una parziale eccezione, in quanto aperti e in teoria disponibili per tutti, in concreto le opzioni per l’uso comune sono limitate a pochi strumenti come ChatGPT e simili.
Dal punto di vista economico si tratta poi di strumenti che hanno bisogno di grande potenza di calcolo – tanto che OpenAI pone tutt’ora limiti all’uso che possono fare gli utenti di ChatGPT, incluso nei piani a pagamento – e soprattutto di progetti in perdita cronica. Mentre le quotazioni delle aziende che li possiedono raggiungono cifre astronomiche e attirano capitali miliardari, le più popolari applicazioni per l’uso comune costano ancora assai più di quanto ricavano. Si riflette anche in queste avanguardie della tecnologia del futuro il ben noto modello presente di giganti basati sulla raccolta di capitale speculativo nella promessa di enormi profitti futuri, con tanto di moderatori pagati una miseria in qualche angolo del mondo per evitare risultati sconvenienti, nella speranza che si possa passare all’incasso prima dello scoppio della bolla. E magari così sarà, ma magari no.
Allo stesso tempo i database e dunque anche i loro risultati riflettono la cultura e la società in cui viviamo: un mondo anglocentrico, giacché ChatGPT e simili funzionano al meglio in inglese, come la stessa chat precisa a richiesta; un mondo in cui sopravvivono ben saldi i pregiudizi razziali e lo sguardo dell’uomo occidentale – i sistemi di riconoscimento facciale funzionano peggio con i volti di persone nere o orientali – e gli esempi comuni riflettono gli antichi stereotipi di genere. Gli enormi database di testi e immagini che nutrono le macchine sono il prodotto del mondo in cui viviamo e restituiscono risultati che ci assomigliano, con tutti i nostri difetti.
VI.
Se l’unicità dell’opera d’arte, la sua aura, è tramontata con la fotografia, bisogna ammettere comunque che essa non era una caratteristica intrinseca dell’arte umana. Il suo tramonto era in realtà solo l’ultimo di una lunga serie, in un succedersi di giorni che variano solo nella lunghezza. Nessuno può seriamente sostenere che il cinema o la fotografia siano forme meno artistiche soltanto perché i loro prodotti sono infinitamente riproducibili. Ma c’è di più: neppure il processo dell’infinita variazione – stadio pericolosamente vicino, come si è visto, a quello della creazione – che già oggi è reso possibile dall’IA, è di per sé qualcosa di inedito, come è evidente non appena si guarda all’arte nel Medioevo.
Da un lato ciò che noi ammiriamo nei musei come opere d’arti medievali avevano piuttosto diversi aspetti in comune, nella prospettiva dei contemporanei, con ciò che chiameremmo piuttosto artigianato: la fedeltà a modelli replicati infinite volte con piccole variazioni, l’uso di un repertorio simbolico chiaro e condiviso, la relativa minore importanza dell’identità dell’autore. O meglio, della sua personalità, giacché ad essere meno richiesto era nello specifico l’aggiunta di elementi personali, troppo distintivi, che si allontanassero eccessivamente dalla tradizione. Anche se tale caratteristica è stata talvolta esagerata, giacché nel Medioevo si trovano numerose attestazioni di artisti con ogni evidenza fieri di esserlo e ben contenti di essere conosciuti per nome, è un dato di fatto che a quell’epoca il legame tra autore e opera fosse meno solido. Prova ne sia che diversi capolavori dell’arte medievale siano arrivati a noi senza indicazioni dell’autore o con un’attribuzione tradizionale implausibile o spuria.
Già oggi possiamo produrre infinite opere simili tra loro, utilizzando l’intelligenza artificiale, come molto numerosi sono i crocifissi lignei di sette o otto secoli fa. Non sono ancora opere che qualcuno voglia leggere, ma è solo una questione di tempo. Ciò che viene rimosso nel processo è piuttosto l’autore, ma anche questo non è di per sé inedito. Interi generi letterari del passato non registravano l’autore o lo facevano con scarso peso, pronto a perdersi al primo accidente della tradizione. Ad esempio le chanson de geste a cui appartiene la famosa Chanson de Roland, della fine dell’XI secolo, per la quale esiste soltanto l’indicazione di un altrimenti sconosciuto “Turoldus” come possibile autore. Ma per la grande maggioranza delle chanson non è presente neppure un’indicazione vaga come quella.
Il loro anonimato d’altra parte è collegato a un’altra caratteristica: l’apertura a variazioni, modifiche, alterazioni che pure non ne intaccano lo status di opera d’arte; in breve la loro mancata unicità, la loro assenza di aura. In parte ciò era dovuto alle traversie della tradizione manoscritta – ogni copista (ma la parola è limitante) faceva qualche modifica nell’atto di trascrivere i codici a mano, da semplici sostituzioni lessicali a spostamenti di intere strofe o episodi – e in parte al loro status fluido, collegato a una lunga fase di trasmissione orale. Sono tutt’ora presenti molte società le cui realizzazioni artistiche sono opere di per sé anonime e non per forza uniche nel senso in cui è unica la Gioconda. Nel 1955 Jean Rychner scrisse un bellissimo saggio in cui mise in collegamento le chanson de geste con la poesia orale dei cantori jugoslavi a lui contemporanei, che ancora andavano in giro recitando a memoria testi di età indefinita e di autorialità sconosciuta. Aprì la strada a un intero filone di studi che recuperavano la “poesia eroica” di varie parti del mondo o riflettevano sul ruolo dell’oralità nella creazione artistica, ma d’altra parte basta guardarsi intorno per rendersi conto di come una quantità impressionante di testi è arrivata a noi senza autore e senza cronologia troppo definita, dai Veda indiani al libro del Tao cinese a diversi libri della Bibbia ebraica. In alcuni casi c’è un largo consenso tra gli studiosi che si tratti di autori o gruppi di autori diversi, che hanno lavorato e rilavorato un testo lungo diversi decenni quando non secoli, magari passando per una fase di trasmissione orale e magari venendo celati dietro un nome tradizionale – l’esempio più celebre è Omero.
Per tutte queste opere è davvero importante l’accidente anagrafico di chi ne sia stato l’autore, ammesso che si possa stabilire, e soprattutto è così diverso pensare che in futuro si possa fruire in modo simile anche dell’opera di un autore non umano? La Storia disegna grandi cerchi, un’idea propria della cultura orientale ma che si ritrova anche in Platone (e che affascinava Borges). Torneremo a un’arte medievale o premoderna, d’autore ignoto o irrilevante, che invece di affondare nelle lontananze del tempo affonderà nelle non meno imperscrutabili linee di codice.
VII.
Il futuro che si intravede è quella di una fruizione diretta, immediata, personale dell’opera d’arte creata dall’intelligenza artificiale. Non è impossibile pensare che un giorno ciascuno deciderà, ogni sera, se leggere un romanzo nello stile di Tolstoj, o ispirato a un quadro di Pollock, o scritto con gli occhi di un giapponese in Italia o di un italiano su Alpha Centauri, e lo potrà ottenere di qualità soddisfacente – persino adeguato agli esatti gusti personali e tarato sul livello di preparazione culturale adeguata – nell’arco di qualche secondo. Qualcosa di simile potrebbe accadere con il cinema: già oggi esistono finti video piuttosto credibili con le fattezze di un attore famoso o di un politico di primo piano. Un servizio che crea un film di due ore sullo stile di Quentin Tarantino e il protagonista somigliante alla suocera dello spettatore è dopotutto solo una questione di potenza di calcolo.
Certo si pone qualche limite fisico, visto anche che i lettori di libri elettronici esistono da tempo e non sono mai diventati un’abitudine di massa. Il libro come oggetto ha una praticità e una resistenza alle innovazioni che lo ha fatto sopravvivere per parecchie centinaia di anni: ma neppure lui è eterno, da un lato – con buona pace di Umberto Eco, secondo cui era un’invenzione non migliorabile – e dall’altro se siamo in grado di stampare oggetti in materiale plastico con aggeggi non tanto più grandi di un microonde non è difficile pensare che, se ci sarà abbastanza domanda, uno degli elettrodomestici futuri sarà lo sfornatore di tomi a richiesta. Oppure le copisterie avranno una nuova età dell’oro. O verrà inventato qualche genere di distributore automatico (sarebbe una bella ironia se i terribili loculi con le macchinette a gettoni aperte ventiquattr’ore si trasformassero nei punti di diffusione della cultura del futuro).
Le opere visive prodotte dall’intelligenza artificiale contengono ad oggi particolari ed errori che le rendono francamente inquietanti, la musica artificiale non ha ancora prodotto successi globali, ma nel campo della scrittura i testi ottenibili già oggi sono perfettamente utili per alcuni scopi limitati. Nulla vieta peraltro di pensare che alle creazioni artificiali si accompagnino nuove estetiche, cioè nuovi paradigmi del bello. Gli accostamenti creati da un software e le forme in cui essi si organizzeranno potrebbero, in qualche modo ancora imprevedibile, suscitare in noi piacere o interesse. Dopotutto non c’è nessuna ragione intrinseca per trovare bello un tramonto o una montagna d’inverno.
VIII.
Già oggi la fruizione della cultura è questione di nicchie, più o meno grandi: il discorso culturale non è più da tempo un discorso di massa, almeno per quanto riguarda la discussione di singole opere letterarie. Quale libro una delle varie comunità in cui è spezzettato il mondo online sente la necessità o ha l’interesse di leggere è dettato in larga parte da logiche commerciali. Si tratta comunque di comunità insulari e poco comunicanti. Con la scarsa considerazione per la cultura letteraria e la scomparsa sia dei critici che delle riviste quali luoghi davvero rilevanti dell’elaborazione culturale, ma anche della struttura sociale strettamente piramidale e gerarchica, tutto è lasciato al passaparola, all’abilità promozionale delle case editrici e a quella degli autori stessi.
La produzione diretta delle opere letterarie resa possibile dall’intelligenza artificiale non farà che accentuare la tendenza in atto e ridurre la nicchia fino a farla coincidere con il singolo. Ci sarà chi leggerà soltanto nuove opere (alla maniera) di Stieg Larsson, chi racconti brevi ispirati al meteo del giorno, chi un’opera di Shakespeare lunga trentacinquemila pagine. Le mode letterarie o cinematografiche, seppur sopravviveranno, saranno semmai basate, più che sugli esatti testi davanti agli occhi dei lettori, sulle ricerche fatte dagli utenti. Andrà di moda il romanzo intergalattico, il punto di vista delle particelle subnucleari, il giallo con protagonisti i dittatori nordcoreani. Non saranno per forza fenomeni meno interessanti.
Lo scrittore umano avrà forse meno senso di esistere e, di nuovo, non dobbiamo illuderci che la nostra personale volontà di creare tramite lunghi racconti scritti sia una necessità umana, eterna e immutabile. L’espressione formale della volontà di creazione artistica è in larga parte frutto delle capacità tecniche e delle circostanze sociali. In luoghi del mondo dove la carta si conserva male e mancano i supporti scrittori, l’arte ancora sopravvive, ma non prende la forma dei romanzi. Quando gli strumenti tecnici cambiano, intere forme espressive scompaiono lasciando poche tracce, e lo stesso effetto hanno i mutamenti culturali. Pittura e scultura erano le vette dell’arte ancora cent’anni fa, come prima lo erano state drammaturgia o composizione sinfonica, mentre oggi sono tutte marginali. Fotografia e cinema attirano oggi molti ragazzi con talento artistico, ma non si vedono molti posseduti dalla voglia di dipingere a olio, per quanto i musei trabocchino di capolavori su tela e tutti gli strumenti per la pittura siano ancora largamente disponibili. Al tramonto della scrittura umana si accompagnerà l’alba di arti inconcepibili.
P.S.: In appendice alla raccolta di poeti che leggono le loro opere della scorsa settimana, aggiungo questo post di Nazione Indiana, pubblicato per coincidenza lo stesso giorno della mia, con in testa una lettura della straordinaria Todesfuge da parte del suo autore Paul Celan.
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