Nella scorsa puntata ho parlato del fascino che ha su di noi il Medioevo. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Devo al mio amico Dario un curioso aneddoto su Franz Kafka: quando leggeva brani delle sue opere ai suoi conoscenti le presentava come umoristiche. Rideva, mi ha detto Dario, e tempo dopo ho trovato conferma da qualche altra parte di questa curiosa autointerpretazione, stupidamente dimenticando di prender nota dei dettagli.
A margine: chissà perché non mi appunto subito le frasi che mi restano impresse o che per altri motivi sarebbe importante ricordare. Forse penso che, messo di fronte a parole utili, o che sento vere e riuscite, esse mi si stamperanno in testa in modo indelebile. In realtà sono piuttosto scarso nel ricordo dei dettagli; la pigrizia nel prendere appunti causa poi l’inevitabile fastidiosa indeterminatezza proprio per ciò che vorrei ricordare nel modo più nitido.
Ma la storia di Kafka – che spero davvero di ricordare passabilmente corretta – ha un altro importante insegnamento, e cioè che i libri non appartengono più ai loro autori dal momento in cui vengono pubblicati. Kafka poteva benissimo trovare le sue opere divertenti, ma ciò non rende meno vivo, né per qualche motivo sbagliato, il senso di angoscioso disorientamento che provano i suoi lettori.
Quanto ha da dire il suo autore su un’opera infatti è di rado interessante. Al massimo qualche dettaglio anagrafico o circostanze di composizione, che non tolgono o aggiungono nulla al valore dell’opera in sé. Un libro è un po’ come una battuta umoristica: l’uno e l’altra non sono riusciti, se per la comprensione c’è bisogno della spiegazione d’autore.
C’è un autore italiano contemporaneo, a mio modesto avviso di nessun valore ma con molti estimatori anche tra gli addetti ai lavori, che ha rilasciato interviste in cui dice che è il più grande scrittore vivente, un rivoluzionario, un innovatore imprescindibile: gli perdoniamo il peccato di superbia, la sfacciata mancanza di modestia, ma dobbiamo notare quanto si trovi drammaticamente fuori strada, quanto distante dalla comprensione della sua stessa opera. Perché la sua voce dovrebbe valere più di quella dei buoni lettori?
Ecco perché non mi interessano le interviste con gli scrittori, attente operazioni di costruzione di un personaggio, né i festival letterari, dove si vanno a sentire le opinioni di qualcuno che ha l’unico pregio di aver letto di sicuro il libro di cui parla, per averlo scritto. E anche le biografie lasciano il tempo che trovano, cose da studiosi, materiale buono per i saggi critici. Il lettore accanito ignora il parere di chi ha scritto il libro e sa che quest’ultimo esiste (anche, soprattutto) senza il suo autore.
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Sottoscrivo ogni singola parola di questo post. E non chiederò chi è l'autore italiano cui si fa riferimento...